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Alberto Nagel

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Pubblichiamo uno stralcio del libro “Il Cigno nero e il Cavaliere bianco” di Roberto Napoletano, edizioni La Nave di Teseo.


Vediamola allora più da vicino, potremmo dire in carne ossa, la cosiddetta questione francese. La squadra bancaria, finanziaria e industriale su cui può contare in Italia: un esercito di uomini e posizioni costruite nel tempo, ognuna con una sua ragione e un suo profilo ma all’interno di un assetto di insieme che risponde a una regia non scritta né dichiarata ma assolutamente reale e almeno a un punto strategico, altrettanto concreto, condiviso da tutti.

A grandi linee il disegno politico parigino è il seguente: impossessarsi di parti sempre più estese e crescenti della grande distribuzione, dei brand della moda e del lusso, delle telecomunicazioni, dei media, dell’industria spaziale, di banche e assicurazioni; un settore dove c’è maggiore aggressività riguarda l’energia, per contrastare le ambizioni globali dell’ENI, e un occhio vigile riguarda gli armamenti, per ridimensionare Leonardo. Sia chiaro, non è un programma francese di spoliazione dell’Italia, e tantomeno di condanna al declino economico, mapiuttosto, molto più semplicemente, un programma economico-militare di sudditanza, esattamente come avvenne ai tempi di Napoleone I che da primo console si fece eleggere presidente della repubblica italiana, nel 1802, con tanto di tricolore e di primo nucleo di esercito nazionale. Nel 1804 Napoleone I si fece incoronare imperatore e, l’anno dopo, trasformò la repubblica nel Regno d’Italia.

Quella di oggi potremmo definirla la nuova campagna di annessione economica dell’Italia.

Donato Iacovone, amministratore delegato di Ernst & Young Italia e managing partner di Italia, Spagna e Portogallo, l’Europa del sud, e conoscitore come pochi del sistema industriale italiano, non ha dubbi: “Diciamo le cose come stanno: tu – parlo dell’Italia – sei il paese che ha le fabbriche e sa fare i prodotti; io, Francia, ho la capacità di fare branding nel mondo e ho il cliente, ma mi manca il prodotto. Che cosa fa la Francia? Si compra l’Italia, investe sull’Italia e chiede all’Italia di fare i prodotti che la Francia non sa più fare e di farne sempre di più e sempre meglio. Le grandi banche corporate francesi sono i pivot, la testa e le munizioni finanziarie per completare le loro filiere comprando a basso costo aziende italiane con prodotti di alta qualità.”

Incalza Giampiero Massolo, ambasciatore oggi presidente di Fincantieri, ieri capo dell’intelligence al posto di De Gennaro, esperto di sistemi paese e di relazioni internazionali: “Italia e Francia sono tra loro naturalmente complementari ma anche concorrenziali sia sul piano geopolitico – abbiamo le stesse aree di influenza e non abbiamo il peso dell’eredità coloniale francese che ha lasciato a tratti un brutto ricordo – sia dal punto di vista industriale, dove produciamo le stesse cose e noi a volte meglio di loro, come dimostrano le nostre fregate FREMM che sono spesso gradite sul mercato più delle loro. C’è un punto, però, che non dobbiamo sottovalutare: è il sistema istituzionale francese, perché è fatto in modo da mettere in condizione chiunque sia all’Eliseo di decidere, mentre da noi il sistema decisionale è più farraginoso. La pubblica amministrazione francese è strutturata per eseguire quelle decisioni, la Francia politica, industriale, bancaria, finanziaria, è tutta accentrata, agisce come un unicum; mentre noi siamo decentrati, non abbiamo nel DNA e nella pubblica amministrazione chi presidi l’esecuzione del disegno generale sottraendolo al prevalere degli interessi settoriali. Il fatto che malgrado tutto ciò non siamo scomparsi e abbiamo ancora un posto di tutto rispetto nel mondo può non piacere. Può sorgere la tentazione di ricorrere ai mezzi di cui si dispone, a tutti i livelli, europeo, politico, finanziario, per acquisire realtà italiane e inserirle in modo funzionale in un disegno di crescita. Nell’acquisto dei cantieri di STX France nell’accordo tra Fincantieri e Naval Group non è stato così, i vertici delle due aziende hanno dialogato molto, il governo italiano si è fatto sentire ed è stato rispettato, ma occorre la massima vigilanza politica per fare prevalere le ragioni della complementarietà. E l’Italia deve recuperare l’orgoglio di sapere fare bene le cose acquisendo la virtù nuova di farle insieme.”

Cerchiamo, dunque, di ricostruire a grandi linee la mappa degli interessi francesi in Italia e la squadra di donne e uomini impegnati in prima linea, avvisando che sull’accordo cantieristico Roma-Parigi la sorpresa di ritrovarsi depredati nella difesa e, quindi, nella tecnologia del futuro, ha un alto tasso di probabilità ed esige guardia stretta.

BNP Paribas ha la BNL ormai da tempo e un capo azienda di assoluto valore come Jean-Laurent Bonnafé che, di sicuro, ha intenti espansionistici e coglierà la prima buona occasione in Italia o in Germania; Commerzbank è una preda ambita che viene di volta in volta attribuita ai disegni di crescita di BNP Paribas, di Crédit Agricole o della Unicredit di Mustier, con il governo tedesco che si affretta peraltro a chiarire di non avere preferenze e di non avere messo in vendita niente.

In casa nostra Bonnafé ha potuto contare su un uomo di grandi relazioni e di lunga esperienza come Luigi Abete e, quindi, si è ben radicata sul territorio. Crédit Agricole ha un altro nome forte in Italia, quel Giampiero Maioli che guida Cariparma e siede nel board di Parigi. Cariparma cresce e ha rilevato a costo zero, come Intesa Sanpaolo ha fatto con le Venete, le casse di risparmio di Rimini, Cesena e San Miniato, e buon ultimo un gioiellino milanese come Banca Leonardo. La vera novità è l’arrivo di Jean-Pierre Mustier alla guida di Unicredit: formazione alla École Polytechnique, ossia con ranghi militari scolastici ottenuti con la laurea alla facoltà napoleonica-militare di Francia, ma soprattutto École des Mines (élites delle élites), a cui per definizione appartengono i vertici delle istituzioni francesi e da dove spesso attingono risorse umane le grandi aziende pubbliche e i servizi segreti d’oltralpe.

Di sicuro enfant prodige della finanza corporate, Mustier è uomo di assoluto valore. Toglie il tetto del 5% per gli azionisti e accresce la contendibilità dopo aver condotto in porto un aumento di capitale monstre da 13 miliardi che irrobustisce fortemente e connota con un profilo internazionale di primo livello la banca italiana. Per il sistema bancario di casa nostra questa operazione di mercato ha effetti straordinariamente positivi; anche se i soci della banca, soprattutto quelli italiani, dovrebbero chiedersi perché non poteva essere proprio Ghizzoni a condurla in porto, se non altro lui proprio aveva voluto con sé Mustier in Unicredit. Non è stato così, amen. Fatto sta che oggi saldamente al timone della banca milanese, adesso ci sono anche la sede sociale e legale, c’è Jean-Pierre Mustier. Anche lui, come Philippe Donnet con Galateri in Generali e l’israeliano Amos Genish con Recchi in Telecom, ha il suo “ufficiale di collegamento” che è Luca Cordero di Montezemolo, l’ex presidente di FIAT, Ferrari e Confindustria, colui che più di tutti ha voluto Mustier.

Donnet e Mustier sono compagni di caccia e soci di vecchia data in affari privati: il primo, consigliere di amministrazione di Vivendi, manager-soldato in Francia, lascia il suo paese e accetta di venire in Italia con un ruolo di seconda fila, ma lo fa perché sa con largo anticipo che farà il salto e diventerà il numero uno di Generali; il secondo, comandante di stato maggiore e manager di prima grandezza in Francia per una lunga stagione, cade da cavallo e si rialza in casa sua, rientra nel giro in Italia con la vice direzione generale per il corporate di Unicredit, assunto da Ghizzoni, e fa il salto anche lui in Italia per il suo grande ritorno sulla scena della finanza internazionale.
Di questi “ufficiali di collegamento” che sanno stare bene al mondo ce n’è uno che sta più in alto di tutti: si chiama Alberto Nagel, una vita divisa tra Londra e Milano, a differenza degli altri ha i galloni di amministratore delegato. Ha il “merito” di avere aperto le porte di Mediobanca – e, di conseguenza, di Generali – a Vincent Bolloré, esponente di un capitalismo predone francese, di gran lunga più predone del capitalismo di relazione all’italiana che coincide con le grandi famiglie decadute della borghesia del nord, le quali, sia chiaro, non hanno nulla a che vedere con quel tessuto vitale di multinazionali tascabili e PMI italiane che riescono ancora a fare 400 miliardi di esportazioni l’anno e oltre 100 di surplus, l’unica voce all’attivo di questo paese.

Il più concentrato sul proprio business, quello bancario a 360 gradi, appare l’enfant prodige della finanza speculativa francese, l’algido Mustier, che mette in vendita uno dopo l’altro tutti i gioielli di casa, può contare sul lavoro di pulizia fatto in profondità da Ghizzoni negli anni precedenti, con almeno tre ondate di accantonamenti per decine di miliardi, e, rispettando alla lettera tutte le procedure di una gara internazionale, incassa quattro miliardi sonanti e piazza il risparmio mondiale di Pioneer e la preziosa rete di vendita su tre continenti in mani francesi, benché fino a qualche settimana prima sembrasse destinata a Santander. Come dire: i francesi pagheranno molto di più degli spagnoli, ma lo scrigno globale del risparmio dell’amatissimo Lombardo -Veneto – quasi 90 anni di storia, duemila dipendenti in 28 paesi del mondo, con un patrimonio gestito pari a circa 225,8 miliardi di euro tra America, Europa, Medio Oriente e Asia – passa sotto le insegne di Amundi, società di diritto francese nata non più di sei anni fa, una joint-venture tra Société Générale e il gruppo bancario Crédit Agricole, che con questa operazione diventa il primo gestore di asset management dopo i colossi americani. Ad assistere Unicredit sono JPMorgan e Morgan Stanley; ma ad assistere Amun- di, ça va sans dire, c’è la Mediobanca di Nagel, che porta a casa la sua fiche francese rivestita, fa rivoltare nella tomba Cuccia e Maranghi, e si prepara a essere assorbito nelle file di Unicredit dove il corporate è saldamente nelle mani di Olivier Khayat, noblesse oblige, e di Gianfranco Bisagni, che operano con basi a Milano, Londra e Monaco e hanno raccolto l’eredità di Mustier e dell’attuale direttore generale, Gianni Franco Papa. Ovviamente tutto questo potrà realizzarsi quando il capo di tutti, monsieur Bolloré, avrà consolidato la presa su Telecom e Mediobanca, ma soprattutto su Generali, che è l’unica preda internazionale veramente ambita dalla élite francese perché coincide con gli “interessi supremi” della nazione. Bisogna perdere qualche attimo per capire chi è davvero Bolloré, l’uomo che ha in mano le telecomunicazioni italiane e dalla tolda di comando di Mediobanca che ha un solo asset vero – Generali, di cui detiene il 13% – punta al grande slam assicurativo.

Per capirlo bisogna vedere come si è comportato su Telecom e su Generali, dove non appare mai ma la sua voce è ascoltata e temuta, attraverso il filtro milanese-parigino- londinese di Nagel. Esattamente come è avvenuto per Ma- rio Greco in Generali che doveva fare tre mandati da CEO e ne ha fatto uno, Flavio Cattaneo in Telecom doveva fare tre anni e ne ha fatti poco più di uno. In Generali come in Telecom, Bolloré aveva bisogno di un manager credibile che lavorasse già da un’altra parte con un altro contratto per essere ancora più credibile e con tanto di penale con meccanismi che permettono di pagare il dovuto nel “modo giusto”: vale a dire che Bolloré paga il 20%, l’altro 80% lo paga la società. Come in Generali era stato mandato a riscaldarsi al livello più basso il soldato Donnet, che accetta di essere degradato perché sa che poi salirà, per cui improvvisamente greco finisce il mandato e non va più bene, così in Telecom Cattaneo brucia le tappe e fa in un anno il migliore risultato degli ultimi quaranta trimestri ma deve fare posto a un altro uomo di fiducia di Bolloré, l’israeliano Amos Genish che ha fatto faville in Brasile ma ha diritto a quel posto perché è un uomo suo, un uomo di Bolloré, questa è la realtà.

Per la verità il raider bretone cerca di convincere Cattaneo di accettare Genish come direttore generale, esattamente come era per Donnet con Greco, ma viene respinto con perdite.

In realtà, nel disegno di Bolloré c’è sempre un pensiero per tutti, ma dopo il suo; se è riuscito come è riuscito a cacciare tutti i familiari e a scippare l’azienda al suo miglior amico, c’è da ritenere che abbia ragione chi sostiene che non abbia il classico pelo sullo stomaco ma la moquette. Chi avrebbe potuto sfidare in casa propria Berlusconi se non lui? Provare a togliere Mediaset a quel Cavaliere che ha dato una mano a Bolloré per entrare nei salotti italiani, vuol dire che il cinismo consueto degli affari si coniuga con una disinvoltura e un’arroganza senza pari.

La doppia offensiva di Vivendi su Telecom e Sparkle, da una parte, e Mediaset, dall’altra, è il punto più avanzato di una campagna che non si ferma più a fare incetta di belle aziende italiane e di buona mano d’opera, ma che punta ormai apertamente alla conquista delle imprese sistemiche di un paese per poterne controllare flusso di investimenti, orientare il famoso CAPEX a favore delle produzioni francesi, mettere sotto controllo settori strategici come le telecomunicazioni e funzioni delicatissime come intelligence e sicurezza.
Tutto questo avviene sotto l’occhio vigile, per la prima volta, di authority e governo, che mettono paletti, fanno ostruzionismo, prendono provvedimenti ed esercitano correttamente il golden power ma senza il risultato di bloccare la scalata al sistema nevralgico comunicazioni-intelligence del Bel paese. Sono andato a trovare Carlo Calenda, ministro dello sviluppo, in via Veneto .(…) Vado da lui perché il primo a parlare di cassetta degli attrezzi, golden power e altro, per chiedere ai francesi di astenersi da atti predoni è stato lui. (…)

Con lui voglio parlare di Francia e capire che cosa succederà con Bolloré, come finirà tra Fincantieri e Naval Group, se la politica batterà mai un colpo per davvero. Esordisce così: “La Francia sul piano industriale ha fatto una scelta semplice: quella di lavorare sui campioni nazionali privati e pubblici, si sono concentrati sulla dimensione e si sono indeboliti nel tessuto delle PMI. Per questo hanno fatto shopping in italia. (…) Ma anche noi abbiamo campioni nazionali. Prendi anche l’esempio delle navi, Fincantieri fa navi più belle e più competitive di quelle che fa Naval Group, la nostra capacità ingegneristica e manifatturiera non ha nulla da invidiare ai francesi e in molti casi ai tedeschi. Bisognerà poi verificare se Macron riuscirà a rivitalizzare il sistema delle PMI francesi facendo riforme che incidano sulla produttività dei fattori a partire dal lavoro.”

Noi non abbiamo mai usato il golden power fino al caso Telecom, lo strumento esisteva ma non veniva usato. Ora l’abbiamo finalmente implementato e nel DL fiscale abbiamo ampliato i settori di intervento includendo quelli tecnologici. Una battaglia che abbiamo fatto in Europa proprio con Macron. Applicare le regole in modo assertivo è fondamentale, particolarmente nei periodi di transizione politica. A de Puyfontaine glielo ho detto chiaro e tondo: “Non ci potete trattare come la Guyana Francese.” Non possono venire in Italia mentre c’è un cambio di governo, scalare e bloccare Mediaset senza nemmeno dire che cosa vogliono fare; ma qui il sistema Italia ha tenuto e la risposta di authority e governo, ciascuno separatamente nel proprio ambito, ha funzionato, e finalmente abbiamo approvato la norma antiscorrerie affinché un caso del genere non si ripeta.” Qualcosina si muove.
(…)

Tutto bene, Carlo, ma noi abbiamo il problema di Generali, abbiamo il problema di un sistema paese che aiuti quei piccoli imprenditori a diventare medi e i medi a diventare grandi e che, soprattutto, si muova sullo scacchiere europeo e mondiale con la visione e la forza pratica dei grandi player internazionali. Solo allora noi usciremo dalla Grande crisi italiana, se cambieremo così tanto in casa da essere capaci di farci rispettare anche fuori casa. Quando non dovremo più lamentarci dell’Europa perché saremo diventati più seri e più organizzati.”


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