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Non solo denatalità, anche la fuga di cervelli: in aumento i giovani formati che scelgono l’estero all’Italia. L’Istat certifica una popolazione in calo da dieci anni consecutivi


L’Italia si svuota. Non è un’iperbole o uno slogan, ma un dato di fatto, un trend in atto con conseguenze visibili già oggi. A certificare quella che da tempo sembra una certezza sono state negli ultimi giorni più fonti. Il 31 marzo scorso, la pubblicazione degli indicatori demografici dell’Istat per il 2024 è stata drammatica: una popolazione in calo da dieci anni consecutivi, con 37mila persone in meno rispetto al 2023 e 352 mila giovani che hanno lasciato il paese nell’ultimo decennio, i cittadini under 14 scesi sotto al 12%, il tasso di fecondità delle donne che ha registrato il suo minimo storico (1,18 figli per donna) e l’età media delle madri che continua a crescere (32,6 anni).

Pochi giorni prima, una ricerca del think tank europeo Bruegel prospettava un raddoppio degli over 85 nei paesi europei nei prossimi venticinque anni, con i mediterranei Italia, Spagna e Grecia che finirebbero per perdere il 20% degli under 65, a fronte di un +40% degli over.
Il risultato? Nel 2080, tra poco più di cinquant’anni, il nostro paese potrebbe perdere fino a 17 milioni di abitanti. “Un’Italia molto più piccola e vecchia” è la descrizione data dal presidente dell’Istat Francesco Maria Chelli in una recente intervista al Corriere della Sera. Uno scenario disastroso per la competitività del paese, per la sua innovazione, per il mondo del lavoro e per il sistema previdenziale. In poche parole: la crisi dell’intero sistema-paese Italia.

Ma non c’è bisogno di andare avanti di decenni per vedere effetti tangibili dell’inverno demografico. Come per la crisi climatica, anche per quella demografica le conseguenze sono già in atto, ben visibili da chi le vuole vedere. E, anche in questo caso, il problema era già noto da tempo: “In Italia ci sono più morti che nati fin dai primi anni Novanta, e noi ci siamo resi conto di essere in declino demografico solo negli ultimi quattro-cinque anni” sentenzia amaro il sociologo Stefano Allievi, professore all’Università di Padova.

I risultati sul mondo del lavoro però si vedono già, e sono brutalmente trasversali e indifferenti ai vari settori dell’economia. “I settori più colpiti sono quelli tecnologici, perché hanno maggiore bisogno dei giovani” afferma Maurizio Del Conte, giuslavorista, docente di diritto del lavoro alla Bocconi, “c’è un problema di reperimento per tutte le professioni, non si riescono a soddisfare in modo fisiologico il 50% delle posizioni. Ma la situazione è grave soprattutto per i lavori tecnici, da cui maggiormente dipende la trasformazione digitale, e quindi il futuro del paese. Chi vuole fare impresa nei settori ad alto valore aggiunto non trova né le competenze né le persone”.

Il rischio, quindi, è quello di un’Italia che arranca sempre di più nella competitività e nell’innovazione tecnologica, zavorrata dal triplo effetto della continua riduzione degli ingressi nel mercato del lavoro, della fuga dei cervelli, e dell’incapacità di attrarre professionisti qualificati dall’estero.
Ma non sono solo le professioni ad alto valore aggiunto quelle che stanno scomparendo. Anche nel turismo, a lungo decantato come il petrolio dell’Italia, si fa fatica a trovare personale. Alberghi e ristoranti si basano sui servizi che richiedono personale in abbondanza, che ora manca. “Ci vantiamo molto dei nostri successi nel turismo, ma la realtà è che in altri paesi del Mediterraneo, penso soprattutto all’altra costa dell’Adriatico, il turismo registra tassi di crescita più elevati e una fidelizzazione maggiore da parte dei visitatori” sottolinea Allievi.

Tutto questo in un quadro in cui la disoccupazione è ai minimi (6,3% a gennaio). Ma il dato rischia di ingannare. Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro è ancora superiore al 60%: 4 italiani su dieci in età da lavoro nel mercato non entrano proprio. E l’Italia registra anche il tasso di NEET (giovani che non studiano, non lavorano e non sono in un percorso di formazione) tra i maggiori d’Europa.

Tutto ciò è un problema, ma offre anche paradossalmente un’opportunità di intervento. “Giovani, donne e immigrati sono le tre leve su cui si può lavorare già da subito” sostiene Del Conte. I dati sui NEET e sulla partecipazione al mercato del lavoro dimostrano che in Italia c’è molto più spazio d’azione sui giovani rispetto ad altri paesi (nel nord Europa, ad essere fuori dal mondo del lavoro sono poco più del 10% della popolazione, difficile spremere più di così). Il differenziale di partecipazione al lavoro tra donne e uomini è elevatissimo, circa venti punti. Vuol dire un gran potenziale inespresso di lavoro femminile che manca. E poi c’è l’immigrazione.

La politica dovrebbe riuscire a gestire e pianificare meglio gli ingressi. E a trattenere chi arriva e vuole subito andare via, spesso proprio per le ragioni che fanno fuggire gli italiani: salari bassi e poco competitivi rispetto al resto d’Europa. “Bisognerebbe firmare degli accordi con i paesi d’origine nel centro Africa” suggerisce Allievi, “accordarsi per ricevere diecimila o ventimila immigrati regolari ogni anno da formare professionalmente e linguisticamente anche in loco, fermando nel frattempo le partenze irregolari. Ne beneficerebbe l’Italia quanto le sue controparti, che riceverebbero flussi di denaro sicuri sotto forma di rimesse”.

Le politiche migratorie, quindi, sembrano inevitabili per provare a uscire dal pantano della denatalità, tanto quanto quelle per la famiglia. Queste ultime, del resto, si sono dimostrate finora insufficienti e poco efficaci (oltre ai dati su fecondità e natalità sono emblematici quelli sui nuclei familiari: la dimensione media è di appena 2,2 componenti, con un terzo delle famiglie che sono composte da una sola persona, e le coppie con figli sono meno di un terzo del totale). E qualora anche funzionassero, gli effetti si vedrebbero tra decenni: “Anche nei paesi scandinavi, dove esistono le politiche nataliste migliori del mondo, vi è una forte componente migratoria. Una cosa non sostituisce l’altra, invece in Italia siamo fermi sulle vecchie e solite battaglie ideologiche” chiosa Allievi.

Nella giornata di ieri (7 aprile 2025) è intervenuto sul tema anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in occasione della giornata mondiale della salute ha citato lo scenario di crescente denatalità, che rende più impegnativo garantire continuità e qualità dei servizi del sistema sanitario. Per mantenere in piedi il SSN, e per assicurare pensioni, lavoro e crescita alle future generazioni, serve ora un impegno serio e immediato della politica. Che agisca sulle leve giuste per frenare a discesa ed evitare il precipizio.

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