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Il ministro Matteo Salvini, leader della Lega e ministro dei Trasporti

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IL PROBLEMA, va detto a Salvini, è che può fregarsene dell’Europa, ma non puoi fregartene dei mercati, che, come disse Carville, intimidiscono chiunque. Negli anni Novanta, James Carville, un consulente politico dei Democratici americani, disse: “Usavo pensare che, se ci fosse una reincarnazione, mi sarebbe piaciuto rinascere come Presidente, o come Papa, o come un campione di baseball. Ma ora invece mi piacerebbe tornare in vita come mercato obbligazionario: puoi intimidire chiunque”. Quattro anni fa, ai tempi del Papeete, Salvini sbraitava sui pieni poteri, che gli avrebbero permesso, “senza palle al piede”, di fare la flat tax, di violare le regole europee sul deficit (“non solo si può, ma si deve”), perché tanto “dell’Europa me ne frego” e dei mercati, pure.

La spada di Damocle, naturalmente, sta nelle centinaia di miliardi di euro di titoli pubblici che scadono ogni anno, e che possono essere rinnovati solo col beneplacito dei famosi mercati, che dovrebbero preoccupare Salvini. E infatti, il Governo Meloni si è (giustamente) intimidito e ha messo assieme un progetto di bilancio pubblico (giustamente) prudente. Il che, naturalmente, non ha impedito tante incolte critiche di chi depreca il ricorso al deficit come finanziamento di tante esigenze. I critici deprecano la già alta spesa pubblica, la scarsa voglia di ridurla, l’incapacità di fare una seria spending review…. Perché queste critiche sono incolte?

In un discorso di Mario Draghi al Meeting di Rimini nel 2020, il Nostro citò la “preghiera per la serenità” di Reinhold Niebuhr, che chiede al Signore: “Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, / Il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, / E la saggezza di capire la differenza”. Tanti critici della spesa pubblica italiana dovrebbero trarne ispirazione per capire che ci sono nella spesa pubblica le cose che si possono cambiare e quelle che non si possono cambiare. Capire la differenza aiuta a concludere che la spesa pubblica italiana è già bassa nel confronto internazionale. Audace affermazione, questa, che è spiegata nella tabella. Le cose che non si possono cambiare sono quelle che dipendono dal passato: possiamo cambiare il presente, ma non il passato. Le spese che ereditiamo appartengono a due comparti: le pensioni in essere (delle quali spesso Salvini parla), che naturalmente non si possono ridurre (si può fare qualcosa sulle indicizzazioni, ed è stato già fatto); e gli interessi, che dipendono dal debito passato e che sono in ogni caso decisi dai mercati di cui sopra.

La tabella mostra, per i tre maggiori Paesi dell’euro (Germania, Francia, Italia) e per la media Eurozona, alcune misure chiave della spesa pubblica (in percentuale del Pil). Se guardiamo alla spesa totale, quanti lanciano strali contro la bulimica spesa pubblica italiana, potrebbero essere confortati: solo la Francia fa peggio di noi. Ma, una volta che si tolgano dalla spesa gli echi – purtroppo pesanti e assordanti – del passato, la tabella mostra come la nostra spesa sia la più bassa. Quando, sia detto per inciso, dovrebbe essere più alta, perché l’Italia è un Paese a grande bisogno di spesa pubblica: per addensamento demografico, conformazione orografica, dissesto idrogeologico, inquinamento, conservazione dell’immenso patrimonio archeologico, artistico, paesaggistico, dualismo territoriale, lotta alla criminalità organizzata …. E non dimentichiamo – sempre per inciso – che non è vero che in Italia ci siano troppi dipendenti pubblici: in percentuale dei clienti (la popolazione) quella quota è più bassa in Italia perfino rispetto agli Stati Uniti, tempio del capitalismo. Quello che è successo è che l’economia italiana si trova a subire un “uno-due” deleterio per i conti: rallentamento della crescita e aumento dei tassi. Di solito, quando la crescita stenta, i tassi si abbassano. Ma non in questo anomalo ciclo, segnato dal ritorno dell’inflazione. E il peggioramento dei conti – oscurato dalle complicazioni della contabilizzazione dei bonus edilizi – ha portato a un innalzamento dello spread (peraltro, come si vede dal grafico, abbiamo passato periodi più brutti…).

Tredici anni di spread (rendimenti BTp meno Bund 10 anni) Quid agendum, allora? Bisogna agire sia sui conti che sulla crescita. Per i conti, bisogna prendere sul serio i progetti di privatizzazioni esposti nella Nadef. Bisogna privatizzare tutto il possibile per abbattere il debito, dalla vendita delle quote dello Stato nelle grandi aziende pubbliche al disboscamento del “socialismo municipale”. L’intervento delle Poste in Alitalia fu difeso a suo tempo dicendo che le Poste sono un’azienda risanata e in utile, non sono la longa manus dello Stato. Benissimo, allora perché non privatizzare le Poste, come ha fatto l’Inghilterra con la Royal Mail? Oggi come oggi ‘tagliare’ non vuol dire ridurre gli stanziamenti all’esistente, ma cambiare i perimetri dell’esistente, ridefinendo i confini della Pa. Ci sono molte esperienze estere sulla privatizzazione di servizi pubblici, dai musei alle prigioni. Il passaggio dalla gestione diretta a un ruolo di regolazione è in molti casi un modo per rendere la spesa più snella e più efficiente.

Per la crescita, oltre a ripetere la sempiterna litania dell’attuazione del PNRR, bisogna fare la guerriglia, non la guerra. L’approccio “bottom up” deve partire dai problemi reali dei cittadini e delle imprese. Prendiamo un caso concreto, qualche disperata lamentela di chi lotta con la burocrazia, e ci si adoperi poi, con la pazienza di un orologiaio, a smontare il reticolo di norme assurde e adempimenti vessatori; presentando e rendendo pubbliche proposte cifrate e concrete atte a risolvere il problema. Così si risparmia anche sulla spesa: meno complicazioni vuol dire meno faldoni e meno scartoffie e meno ore di lavoro inutile. Solo così le innovazioni e le semplificazioni procedurali possono fare macchia d’olio e diffondersi, e la revisione della spesa può diventare amica – e non nemica – della crescita. Spesso ci si domanda: perché l’Italia, che ha tante qualità di imprenditorialità, di vivacità culturale, tante (sregolate) passioni, tanta capacità di ‘fare sistema’ a livello di singoli distretti, o di singole circoscrizioni se non di singole parrocchie, tanta ricchezza artistica, non riesce ad avviare queste qualità lungo un ordinato sentiero di sviluppo?

L’humus italiano è fertile e ricco. Ma più il terreno è fertile, più gramigna produce a non coltivarlo (o, come ha scritto più elegantemente il Poeta: “Ma tanto più maligno e più silvestro / si fa ‘l terren col mal seme e non cólto, / quant’elli ha più di buon vigor terrestro”). La classe politica italiana non è riuscita a coltivare questo terreno e a separare il grano dal loglio, perdendosi in lotte intestine – che purtroppo continuano ancora – lontane dal bene della nazione. Riusciremo un giorno a incanalare il “vigor terrestro” italiano, al Nord e al Centro e al Sud, verso una crescita sana e inclusiva?


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