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Il prodotto interno lordo italiano segna crescita zero nel secondo trimestre dell’anno. Questo numero è la sintesi algebrica di quello che siamo. La spesa pubblica allargata lorda trasferisce ai territori meridionali il 6,4% in meno  della popolazione e ai territori del Nord lo stesso 6,4% in più: sono 62,3 miliardi dovuti al Sud e regalati invece al Nord in un solo anno.

La matematica ha la grande virtù di definire numericamente la (vera) questione italiana e la (vera) questione meridionale.

Chi non vuol sentire o dice di non capire, sta fingendo. Ha qualcosa da nascondere o da tutelare. 

 Forse lo zero potrà diventare 0,2. Forse. Anche i due decimali in più non cambierebbero, però, la realtà che è quella dell’unico Paese europeo che è ancora sotto i livelli pre-crisi e con un tasso di credibilità sui mercati pari a meno della metà di Spagna e Portogallo (mai successo prima). Il ping pong quotidiano tra i due vice-premier fa parte della malattia strutturale dell’economia italiana autoindotta dalla politica che ha messo al centro di tutto il vaniloquio e ha eliminato ogni tipo di azione.

Ovviamente ripeteranno fino alla nausea che il tasso di disoccupazione è sceso ai minimi dal 2012 collocandosi al 9,7% e che aumenta il numero dei contratti a tempo indeterminato.

Quando proprio il combinato disposto di questi due dati insieme alla crescita zero dovrebbe far capire che non si tratta di nuova occupazione ma di regolarizzazione di occupazione che già esisteva, magari in nero, cosa comunque positiva, e probabilmente anche della conseguenza dell’aumento degli inattivi, cosa invece negativa. Ricordiamoci la sostanza: il Nord è in stagnazione e il Sud in recessione.

Questa è l’Italia di oggi.

Tutti vi spiegheranno che è colpa dei dazi e di Trump, almanaccheranno sulle mosse anticipatrici della Bce e sul taglio dei tassi operato ieri dalla Fed, non si stancheranno di ripetere che la Germania perde colpi (cosa vera) e che la nostra manifattura ad essa ancillare ne risente. Stringi stringi, però, molti non perderanno l’occasione per dire che il Nord deve avere le briglie sciolte dell’autonomia differenziata per tornare a correre.

La verità è l’esatto opposto.

Nonostante il trucco della spesa storica abbia consentito al Nord di usufruire di un regalone di decine e decine di miliardi l’anno non ha più neppure un solo rappresentante nella top ten europea delle imprese, siamo diventati un popolo di contoterzisti e di subfornitori con una quota manifatturiera italiana che è pari al 5,5% del fatturato cumulato europeo.

Diciamo per una volta le cose come stanno: l’abbuffata senza precedenti di fondi pubblici, indebitamente sottratti, ha fatto molto male al Nord, la droga dell’assistenzialismo riduce la capacità di fare ricerca e innovazione, abitua male, rende dipendenti.

Un giorno ti svegli e scopri che non hai più i grandi pivot che possono conquistare nuovi mercati internazionali – passare da quello declinante a quello espansivo tracciando la strada – e che tutte le tue imprese dipendono da altre locomotive, a partire da quella tedesca di cui siamo contoterzisti e sub-fornitori di precisione.

Stiamo lì in modo imbarazzante intorno allo zero, poco sopra poco sotto, perché soffriamo nel mondo ma anche perché sui nostri consumi si sente la crisi di venti milioni di persone che hanno un reddito pro capite pari a poco più della metà dei concittadini del Nord.

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