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di MARIO MUSOLINO

Caro Direttore, i consensi, e le riflessioni, innescati dal Manifesto per l’Italia pubblicato dal tuo giornale mi inducono a partecipare alla discussione cercando di affrontare in modo non ortodosso l’ormai endemico riproporsi di temi quali il diseguale sviluppo del Paese, con conseguente abbandono e arretratezza, non solo strutturale, del Meridione, i rapporti di causa-effetto di questa condizione con il cancro mafioso-criminale che l’aggredisce, l’assuefazione di noi meridionali ad una vita al ribasso.

Come sai vivo a Reggio Calabria, a sud del cuore, il cuore dell’Italia produttiva ed efficiente, il cuore pulsante delle innovazioni scientifiche, dei poli sanitari, delle case editrici e dei media nazionali, dei trasporti veloci. Una parte del cuore in cui il sangue si corrompe per il contatto con le cellule criminali, i torti subiti, la normalità negata, classi dirigenti buone a nulla ma capaci di tutto (cit. Longanesi), l’ignavia della gran parte di chi l’abita, rischiando di contagiare anche le parti dell’organo sane. C’è una cura?

Se, come rilevato dal Procuratore Capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, l’incidenza della ’ndrangheta sul Pil nazionale segue solo FCA e Finmeccanica, se, nonostante la straordinaria lotta di magistrati e forze dell’ordine, questo male si ripresenta ogni volta più virulento, se è divenuto emergenza planetaria, se è la scusa di tutti i mali, forse il pur necessario, crescente, dispiegamento di forze repressive non basta a debellarlo.

Forse bisogna pensare ad immunizzare le cellule ancora sane con investimenti massicci, anche europei, anche in perdita, per somministrare la costosa cura della cultura e della bellezza, con scuole e università che devono divenire più belle e sicure che in qualunque altro Paese, con biblioteche e piccoli teatri, incentivi a librerie e gallerie d’arte, a scuole musicali e associazioni culturali che non vivano di soli Premi che avvantaggiano esclusivamente chi li elargisce, ma sappiano mostrare l’altro volto del Sud, un vero turismo culturale con sistemi di trasporto coerenti e rispettosi dei tesori naturali che, non per merito nostro, custodiamo(male). Bisogna toglierci ogni alibi. Solo dopo questa iniezione di credibilità, mirata, soprattutto dove c’è più lontananza dalla legalità, disillusione verso la pubblica amministrazione, stereotipata parvenza di irredimibilità, lo Stato potrà prescrivere terapie dolorose o asportare metastasi.

Ma la cura sarebbe vana e incompleta se non comprendesse la rieducazione di noi meridionali, calabresi nel mio caso, alla cultura della libertà. C’è un testo del Cinquecento “ Discorso sulla servitù volontaria” di Etienne de la Boétie che ben si attaglia alla condizione di noi calabresi e reggini in particolare; devi sapere che in Calabria e soprattutto a Reggio, purtroppo, non si nasce liberi, ma in catene, sin dal primo vagito e  solo pochi riescono a spezzarle; il dramma è che, parafrasando le argomentazioni dell’autore, siamo stati noi stessi  a renderci servi volontari del (presunto) potente di turno, a cui ci siamo asserviti non per costrizione, ma per volontaria sottomissione; siamo complici dei nostri carcerieri: per spaccare la legna ci vogliono sempre cunei di legno. Abbiamo perso l’abitudine alla partecipazione, all’indignazione, al bene disinteressato, al riconoscimento del merito; per riacquistarli ci aspetta una lunga notte di impegno e dolorosa fatica, non delegabile, che solo noi possiamo attuare, per spezzare le catene, riacquistare la dignità e vedere l’alba di un nuovo mattino. Nessuno ci può obbligare a una svolta etico-culturale non più rinviabile se non la nostra coscienza, quella coscienza che faceva dire a J.M. Keynes, “nessuna azione, può far sì che il cavallo beva, noi però abbiamo il dovere di fornirgli l’acqua”.

Sperando che il cavallo non sia già morto di sete.


di ROBERTO NAPOLETANO

Caro Mario, ho deciso di condividere con te il fondo della domenica perché la tua lettera non “ortodossa” permette di cogliere il senso profondo del nostro Manifesto per l’Italia e restituisce un tema di discussione altrettanto intenso che riguarda la “volontaria sottomissione” al potente di turno di “noi meridionali, calabresi e reggini in particolare” perché qui, come dici tu, “non si nasce liberi, ma in catene”. Ogni volta che ti sento fare questo ragionamento, ho un moto di stizza e mi viene in mente quando urlasti al circolo del tennis della tua città, a Reggio Calabria, in una notte piena di partecipazione  “ricordati, ricordati noi siamo servi volontari, questo è il problema!”.

C’era un’intensità emotiva particolare in quelle parole che rivivo in questo scritto, ma voglio respingere ora come allora il fatalismo distruttivo che è insito nell’urlo di quella sera e nella tua lettera di oggi. No, così (forse) a volte è, ma così non va bene, così non può essere. La tua intelligenza è un talento che ti è stato donato per spezzare le catene di sistema (vere)  non per rievocare fatalisticamente il peso di quelle soggettive.  So che questo vuoi dire e che, per questo, operi.

Hai citato Keynes: “nessuna azione può far sì che il cavallo beva, noi però abbiamo il dovere di fornirgli l’acqua”. L’operazione verità che abbiamo lanciato con questo giornale, documentando lo scippo sistemico di risorse pubbliche operato dal Nord a spese del Sud, e il Manifesto per l’Italia che punta a ricucire il Paese partono proprio dal dovere (mancato) di fornire “l’acqua” al Mezzogiorno che vuol dire acquedotti funzionanti, asili nido, scuole, ospedali, treni veloci, energia pulita e, cioè, la parificazione negata dei diritti di cittadinanza “ambientali” e delle pre-condizioni necessarie per liberare venti milioni di persone dalle catene vere (assenza di infrastrutture di sviluppo) e presunte/soggettive (l’auto condanna a servire il potente di turno).

Con la stessa faccia di bronzo con cui dicevano che andava abolito l’intervento straordinario, anzi tout court il Mezzogiorno, perché il problema era la classe dirigente meridionale e la debolezza del capitale umano, per non parlare della didascalia della virtù dove si scambiavano le botteghe artigiane dei paesini del Sud con i distretti industriali del Nord, oggi gli stessi denunciano la secessione dei ricchi e hanno tardivamente scoperto che le prime catene sono quelle del furto di Stato organizzato dal ricco a spese del povero con la miopia di chi insegue scorciatoie.

Caro Mario, hai dentro di te la forza per combattere contro le catene pesanti di sistema che negano il futuro alla tua generazione e per liberarti da quelle soggettive-contagiose che possono offuscare la mente. Bisogna essere al contrario contagiosi, con lo spirito giusto, per vincere la prima battaglia senza complessi di sorta e non fare, invece, il gioco gattopardesco di chi vuole lucrare proprio sull’epica emotiva del servilismo volontario. Alziamo la testa, chiediamo e otteniamo il giusto, dimostriamo con i fatti di sapere fare le cose e, dove necessario, di cambiare in profondità. Dipende esclusivamente da noi. Smettiamola di flagellarci.


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