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Piccolo omaggio domenicale a un grande italiano. Mario Draghi. Ha firmato l’atto risolutore della Grande Crisi. Ha salvato in tempi di guerra l’euro e il lavoro possibile. Ha salvato l’Europa. Tre parole uscite dalla sua testa (whatever it takes, qualunque cosa serve) che sono lui: l’analisi empirica, l’intelligenza politica, il dono della sintesi. Quelle tre parole non sono nel testo consegnato dai ghostwriter, alla conferenza di Londra del 26 luglio 2012, nessuno dei colleghi banchieri centrali ne è informato. Esprimono il coraggio dell’uomo. Rimediano all’errore fatale del suo predecessore, il francese Trichet. Inchiodano la politica europea alle sue responsabilità e fanno di lui paradossalmente insieme il custode massimo dell’indipendenza monetaria e il tutore più rispettato della sovranità europea.

Quest’uomo educato, una capacità unica di concentrazione, ha attraversato gli anni della crisi più dura senza mai perdere la calma e consegna a una donna francese di potere, Christine Lagarde, la “rock star” della finanza internazionale, l’eredità europea più pesante. Lo spartiacque della politica monetaria espansiva, l’uscita dell’Europa dalla dittatura del marco, la leadership non scalfita dalle opposizioni perché racchiude il primato congiunto della visione e della concretezza. Insomma: l’eredità di chi fa il suo e ricorda agli altri – politica, impresa, cittadini – di fare il loro.

Draghi oggi è la faccia riconosciuta dell’Europa nel mondo, il primo a cui tutti pensano da una parte all’altra della terra se pensano al Vecchio Continente. Sono incarichi molto speciali che non si possono scrivere sui bigliettini da visita perché non c’è un ente che li attribuisce. Sono cose che succedono perché hai fatto qualcosa che resta e è quel qualcosa che voglio qui raccontare, di seguito, nei giorni in cui Draghi si appresta a concludere i suoi otto anni di mandato. So di averlo fatto già altre volte, ma so anche che è utile ripeterlo perché la memoria è metà del futuro che sapremo regalarci.


“Siamo disposti a comprare tutto ciò che serve e sarà abbastanza”, è bastata questa frase per abbattere la speculazione, sconfiggere il rischio euro e, di riflesso, ridimensionare fortemente il rischio Italia. Il rischio che Draghi deve debellare nell’estate del 2012 è la deflazione europea, prodotto interno lordo e prezzi negativi, la priorità è fare risalire l’inflazione, irrobustire e diffondere la crescita europea. Non è un caso che praticamente mai il presidente della Bce rinuncerà a chiedere agli Stati sovrani di non mollare sulla strada delle riforme strutturali perché la convergenza tra le economie dell’eurozona è la base più solida su cui costruire gli Stati Uniti d’Europa ed è anche la garanzia più concreta che governanti avveduti possano dare ai loro Paesi per evitare che l’aggiustamento della politica monetaria espansiva tra Paesi creditori (Germania) e debitori (Italia e Spagna) avvenga a spese dei prezzi dei titoli sovrani e, di riflesso, della sua comunità di cittadini.

Due giorni prima del whatever it takes di Draghi firmo un editoriale sul Sole 24 Ore, che all’epoca dirigevo, titolato “Il dovere della Bce”. Ne riproduco, di seguito, alcuni stralci perché aiutano a capire il contesto in cui è avvenuta questa scelta, le insidie e le opposizioni radicate, il coraggio necessario per superarle. Ecco: “Non si tratta di ripetere annunci di acquisti limitati di titoli di Stato, ma molto più semplicemente di dire con chiarezza ai mercati che si interverrà esattamente per quanto serve. Se si troveranno la forza e il coraggio per farlo si spenderà meno e si salverà l’euro… facile a dirlo non a farlo… Si obietta: la Banca centrale europea non può attuare questo tipo di interventi, lo vieta la legge. La risposta è secca: non è così. A legittimarli sono precise ragioni di stabilità da tutelare all’interno dell’eurozona. La Bce opera, è chiamata a operare, perché bisogna evitare i rischi terribili della deflazione legati al cataclisma dell’euro, occorre impedire che tutto si avvolga in una spirale recessiva e in un aggravarsi (non più recuperabile) delle posizioni debitorie riportando i tassi dei titoli pubblici spagnoli e italiani a un livello congruo. A nostro avviso, le leggi vanno lette e interpretate nelle condizioni e nei momenti in cui si è chiamati a decidere. Nessuno potrà mai imputare a Mario Draghi e al Consiglio della Bce di essere intervenuti per scongiurare il rischio più grave e avere fatto in modo che per una volta i mercati ci perdano e non ci guadagnino. Anche la Bundesbank dovrà farsene una ragione. Guai se si volesse fare pesare a chi guida la Bce, in questi frangenti, la sua italianità. Il credito personale di Mario Draghi e le esigenze ineludibili del momento impongono la responsabilità di decidere e garantiscono che si eserciti tale responsabilità libera da ogni tipo di condizionamento”.

Il peso delle parole di Mario Draghi e la sua credibilità personale rappresentano insieme l’atto politico che ha salvato l’euro, liberato l’Europa dallo spettro della deflazione, e rimesso in carreggiata l’Italia e la Spagna alle prese con la più grande crisi dal dopoguerra a oggi che ha presentato a noi un conto più pesante di quello di una terza guerra mondiale persa. Questa è la verità, e questo è il merito politico più grande, da statista, che va riconosciuto a Mario Draghi. Colpisce che debba essere il banchiere centrale europeo a mettere la politica davanti alle sue responsabilità, usando con l’intelligenza necessaria in tempi di guerra lo strumento della politica monetaria, e a fare le scelte conseguenti. Schuman, Monnet, De Gasperi prima, Kohl e Mitterand dopo, ai loro tempi, Ciampi e Prodi, non avrebbero esitato un solo minuto, ma questa è un’altra storia. Così come è motivo di orgoglio che sia stato un grande italiano a salvare l’Europa facendo esattamente il contrario del suo predecessore francese. Non sappiamo fare bene sistema e riusciamo ad autoflagellarci come pochi ma senza questo grande italiano di quel sistema europeo oggi ci sarebbero solo macerie. L’Europa ha avuto il suo Cavaliere Bianco ed è il più americano degli economisti e dei banchieri europei. Tra i Capi di Stato e di governo che domani andranno a rendergli onore, a Francoforte, c’è anche chi ha indugiato troppo a lungo, ma la sua presenza dimostra almeno che la lezione è stata capita.


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