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Il Ministero dell'Economia

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Siamo fermi, mettiamo cerotti e rattoppi: non abbiamo né una politica industriale né un’idea forte di politica economica. Usiamo il respiratore della Sace e del Tesoro per tenere in vita pezzi di economia fuori mercato da tempo e ci sono pezzi dell’economia vitale che non sono stati protetti e chiuderanno per sempre. Investire al Sud significa occuparsi dell’Italia

Guadagnano tempo mentre gli italiani perdono tutto. Comprano un tempo che non c’è nell’eterna attesa di fondi europei che devono ancora arrivare. Anzi, a onore del vero, devono ancora partire perché la liturgia comunitaria è a suo modo infinita, ma noi questi fondi sappiamo solo evocarli senza fare mai nulla per essere pronti a spenderli (bene) quando e se arriveranno. Il punto dirimente è che questo tempo, ancora indefinito, senza dubbio non ci è concesso. Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, è stato di poche parole: questo decreto rilancio sta dentro un percorso che poi vedrà una vera e propria strategia per la ripresa… con piani specifici su alcuni settori, penso al turismo come all’automotive, che auspichiamo potrà contare anche su risorse di un Fondo europeo. Le parole sono poche e chiare. Mettono in evidenza alla perfezione il problema. Siamo fermi, mettiamo cerotti e rattoppi, lo facciamo lentamente, non abbiamo una politica industriale, non abbiamo un’idea forte di politica economica, forse le avremo, forse le avremo perché arriveranno gli euro di Bruxelles, ma quando forse saremo pronti noi ci sarà rimasto ormai ben poco da salvare.

Non abbiamo accanimento e non ci divertiamo, abbiamo solo un disperato desiderio di aiutare a correggere la rotta prima che non sia più possibile. Francamente non ci aspettavamo una così masochistica resistenza. Abbiamo detto il primo giorno che il decreto liquidità non avrebbe potuto mai funzionare, è puntualmente successo. Abbiamo chiesto al ministro Gualtieri di riconoscere l’errore grave di avere moltiplicato le burocrazie spacciando garanzie avariate per soldi reali e di correggersi, ma non lo ha voluto fare. Ci hanno provato gli emendamenti della maggioranza introducendo l’autocertificazione su conti dedicati (controllati) e la manleva penale che toglie ogni alibi al direttore di banca. Non sappiamo neppure se riusciranno ad abbattere davvero il muro bancario che compete per pesantezza con quello ministeriale, ma di certo per colpa di Gualtieri e del suo direttore Rivera si è perso del tempo prezioso per proteggere l’economia italiana. Per fare cioè null’altro di ciò che è un atto dovuto e che tutti i Paesi del mondo hanno fatto. Con il decreto rilancio si è ripetuto il vizietto di moltiplicare le burocrazie inventandosi i padroncini di Stato di Invitalia e di Cdp per aziende sotto e sopra i 50 milioni come soci non come erogatori di aiuti e di prestiti e si è tenuta la cassa grande per società italiane e multinazionali di maggiore peso alle prese con problemi seri molto prima del Coronavirus. Soldi veri compensativi del danno subito a turismo, commercio, artigianato, edilizia, piccola e media impresa del Nord e del Sud ancora poco o niente, tranne l’Irap che è una cosa vera, per il resto si gioca su sconti fiscali legati a una base imponibile che non ci sarà più. Così non si va da nessuna parte.

Mancano un disegno di politica industriale e una scelta di politica economica forte. Se ci fanno rabbrividire i padroncini di Stato perché si vanno a fare pasticci dove abbiamo i migliori animal spirits dell’economia non siamo contrari a un ruolo dello Stato imprenditore che supplisca al fallimento delle grandi famiglie private italiane con un gabinetto di guerra formato da uomini di primo livello e una strategia condivisa chiara e riconoscibile. Se io decido, senza nascondermi, che dopo vent’anni di indebita sottrazione di risorse pubbliche dal Sud a favore del Nord, collocherò nelle regioni meridionali il 40% delle risorse europee per le infrastrutture di sviluppo, vuol dire che scommetto sul turismo unificando il contesto ambientale. In questo caso, ha senso eccome rilanciare Alitalia, ma non lo si fa mettendo tre miliardi lì e dicendo: poi si vede. Che cosa impedisce allo Stato imprenditore di chiedere di impegnarsi a uno come Cattaneo che ha preso una società di alta velocità ferroviaria sull’orlo della bancarotta e la ha ribaltata facendone un gioiello non licenziando ma assumendo con un piano industriale vero che non ha niente a che vedere con i mercimoni dei capitani coraggiosi italiani? Che cosa impedisce almeno di provarci? La logica non può essere: ho un problema, ci metto una pezza. Ho un problema all’Ilva? Entra lo Stato, tamponiamo noi. Per chiarirci una volta per tutte: quando c’era la Finsider di cui l’Ilva è una derivata c’era Genova, ma c’era anche Taranto, c’era il disegno industriale italiano e, soprattutto, c’era Oscar Sinigaglia, che lo pensava e lo attuava, chiaro? Stendiamo un velo pietoso su Autostrade e una filosofia di gestione che ha badato alla rendita e ha dimenticato la sicurezza, ma nessuno può permettersi di fare strame di qualsiasi regola di mercato e, soprattutto, l’eventuale azionista Stato ha il dovere di cercare persone di valore che possano riprendere una bella storia interrotta proprio da lì dove è stata interrotta con gli uomini di allora e con giovani di talento. Si può fare, è giusto farlo, ma bisogna volerlo.

Ci sono pezzi dell’economia italiana vitali che colpevolmente non sono stati protetti e chiuderanno per sempre. Ci sono pezzi dell’economia fuori mercato da sempre che verranno tenuti in vita con il respiratore della Sace e del Tesoro e che quando molleranno lasceranno nuovo debito pubblico a tutti gli italiani. La polveriera sociale sta esplodendo e non basterà un rinvio delle scadenze fiscali a disinnescarla. Pensare di continuare con il cerotto quotidiano e, magari, con la riserva mentale di attingere ogni volta che è possibile alle risorse europee destinate al Sud per la nuova emergenza del Nord, significa condannare l’intero Nord d’Italia a diventare Mezzogiorno d’Italia, vuol dire fare retrocedere l’Italia intera. Fermiamoci finché siamo in tempo. Investire su Napoli, Bari, Taranto e Gioia Tauro collegando le aree metropolitane e le aree portuali rompendo allo stesso tempo l’isolamento geografico infrastrutturale della Sicilia, significa non occuparsi del Mezzogiorno, ma occuparsi dell’Italia. Non c’è altra strada per salvare questo Paese rilanciando la domanda interna e rafforzando la sua manifattura del Nord che sarà tanto più forte fuori quanto più forte sarà in casa.


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