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Mario Draghi al summit Nato di Madrid

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Se non arriva una crisi dello spread, se non ci incartiamo con il nostro solito rischio politico interno da populismo elettorale delle parole, se non peggiora drammaticamente la situazione all’estero, l’Italia è oggettivamente l’economia messa meglio in Europa per uscire rafforzata dalla grande crisi globale della pandemia e della guerra lunga. Il cervellone messo su dalla Ragioneria generale dello Stato (Regis) per avere sotto controllo la macchina del Pnrr deve superare la naturale fase di rodaggio, ma mette tutti i soggetti attuatori nelle condizioni di caricare i dati che servono, di fare scattare in anticipo i semafori che segnalano le criticità. Il primo scoglio a fine anno riguarderà l’edilizia universitaria dove si è indietro con gli impegni presi. I ministeri italiani, per non parlare delle Regioni, sono convinti di potere contare su un’elasticità legata ai buoni uffici di Draghi, Franco e al forte lavoro di interlocuzione fatto da Tesoro e Ragioneria generale dello Stato, ma su questo sbagliano di grosso

L’Italia ha fatto passi da gigante anche se è difficile rendersene conto. Ha ristrutturato completamente il sistema bancario e ristrutturato le sue imprese. Su indebitamento e liquidità la situazione è molto migliorata e non è neppure confrontabile con quella del 2011/2012. Le famiglie hanno un debito privato molto basso. Siamo un Paese manifatturiero con imprese forti che esportano, non siamo la Grecia. Abbiamo un Made in Italy che è tutto molto dinamico, molto più resiliente, molto più solido. Nel 2011/2012 stavano fallendo banche e imprese per la crisi dello spread, oggi il sistema economico italiano ha i fondamentali a posto. Stanno ricominciando a scendere anche lo spread e i rendimenti del decennale per due motivi.

Primo. I mercati sono convinti che arrivi la recessione perché più in America che in Europa l’azione contro l’inflazione sarà molto aggressiva e molto rapida, ma che proprio perché determinerà un forte rallentamento le stesse banche centrali saranno costrette nel 2023/2024 a tagliare i tassi di interesse e l’economia ripartirà alla grande.

Secondo. Lo scudo anti spread esiste, parte già dal primo luglio con il reinvestimento usando la flessibilità e trasferendo le risorse sui titoli sovrani che subiscono il rischio della frammentazione. Si sta poi studiando lo scudo anti spread vero e proprio, è praticamente pronto, ancorché imperfetto, i titoli sovrani italiani ne beneficeranno.

Il punto, però, di fondo che i mercati cominciano ad afferrare è che l’Italia continua ad avere numeri migliori degli altri. Anche l’ultimo dato della stessa inflazione con una Spagna al 10,2% e una Germania al 7,6, il 6,8 italiano resta il dato migliore. Per non parlare della fiducia che in America è al minimo storico dal 2013, in Germania è crollata verticalmente, in Francia va giù da sei mesi mentre in Italia quella dell’intero sistema produttivo nazionale è tutta in netta risalita. Una crescita del Pil in due anni che sfiora il 10% con una performance da podio mondiale in questo 2022 segnato da ogni tipo di shock non sono bazzecole.

La credibilità internazionale dell’Italia grazie al ruolo di Draghi in tutti i consessi che contano, dall’Unione europea al G7 fino alla Nato, è a livelli molto alti. Se non arriva una crisi dello spread, se non ci incartiamo con il nostro solito rischio politico interno da populismo elettorale delle parole, se non peggiora drammaticamente la situazione all’estero, l’Italia è oggettivamente l’economia messa meglio in Europa per uscire rafforzata dalla grande crisi globale della pandemia e della guerra lunga. Il vicepresidente della Bce, Luis de Guindos, che è spagnolo, nei suoi colloqui privati non fa mistero di ripetere che i fondamentali dell’economia italiana, a partire dall’attivo sull’estero, la Spagna se li sogna e che il differenziale nello spread è tutto riconducibile al rischio politico.

Agli interrogativi sul dopo Draghi, all’idea mai allontanata del tutto che possano tornare stagioni dove si torna a dire che si fa debito a prescindere. Noi riteniamo che lo spread italiano dovrebbe essere la metà di quello spagnolo. Anche perché i risultati del cambiamento dell’Italia si vedono ogni giorno.

Il fabbisogno di cassa migliora e si è agito attraverso questa strada e la tassa di solidarietà sugli extraprofitti per ridurre ancorché in modo insufficiente i costi del caro bolletta su imprese e famiglie più povere. Si farà altro ancora. Il resto dovrà venire dall’Europa e non si può dire che Draghi molli la presa. Il cervellone messo su dalla Ragioneria generale dello Stato (Regis) per avere sotto controllo la macchina del Piano nazionale di ripresa e di resilienza ed il grande lavoro fatto dal ministro Brunetta sulla pubblica amministrazione devono superare la naturale fase di rodaggio, ma mettono tutti i soggetti attuatori nelle condizioni di caricare puntualmente i dati che servono, di fare scattare in anticipo i semafori che segnalano le criticità, di utilizzare Sogei e fare formazione, e nonostante tutte le cassandre stabilmente al lavoro i 45 obiettivi da raggiungere per ottenere i 21 miliardi della seconda rata europea sono stati regolarmente centrati.

Su questo punto, l’attuazione piena del Pnrr con le riforme di sistema e l’apertura effettiva dei cantieri, si gioca la fase due del nuovo boom italiano. Il sensore più delicato riguarda la fine di quest’anno e il primo semestre del 2023. Perché non si parlerà più di aggiudicazione di gare, ma di cantieri aperti, di stati di avanzamento dei lavori. I ministeri italiani, per non parlare delle Regioni, sono convinti di potere contare su un’elasticità legata ai buoni uffici di Draghi, Franco e al forte lavoro di interlocuzione fatto da Tesoro e Ragioneria generale dello Stato, ma su questo sbagliano di grosso. Il primo scoglio a fine anno riguarderà l’edilizia universitaria dove si è indietro con gli impegni presi. Per l’anno prossimo, se le grandi reti a partire dalle Ferrovie faranno probabilmente il loro, sui Comuni e particolarmente quelli piccoli bisognerà vigilare molto e i semafori accesi da Regis dovranno produrre mobilitazione sistemica di attenzione tecnica e esecutiva. Sarebbe un vero peccato se l’intreccio tra vizi storici della burocrazia centrale e territoriale e le solite manovre clientelari che accompagnano l’imminenza di scadenze elettorali politiche mettesse a rischio il miracolo italiano che oggi è sotto gli occhi di tutti gli osservatori internazionali.

Ricordiamoci che noi dei fondi europei abbiamo preso tutto e ci abbiamo messo sopra anche altri 30 miliardi di fondo complementare nazionale. Per fare investimenti e creare lavoro buono. Se si aprono varchi nuovi, ad esempio sulla transizione energetica, tocca prima agli altri. Noi per arrivare a un Recovery all’anno europeo per dieci anni dobbiamo dimostrare di sapere spendere tutto quello che abbiamo ricevuto con il primo della serie. Oltretutto quegli investimenti ci servono come il pane e non si capisce proprio perché le teste e le braccia degli italiani non possono ripetere oggi il miracolo compiuto dai nostri predecessori nel Dopoguerra.


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