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Raffaele Fitto e Giorgia Meloni

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La base strutturale di una rinascita economica e civile di lungo periodo ha bisogno di un’amministrazione che ritrovi la sua élite di comando, un quadro diffuso di competenze specifiche, una regia politica centrale che tenga insieme i pezzi di governo dei territori regionali, metropolitani, comunali dentro un quadro unitario nazionale di poteri anche di supplenza preliminarmente condivisi da tutti. Il miracolo economico del Dopoguerra non ci sarebbe stato se De Gasperi prima e Fanfani dopo non avessero dato carta bianca a Gabriele Pescatore e alla sua Cassa e se nei ministeri non vi fosse stata la convinzione che carriere e incarichi seguivano criteri di risultato perseguiti da una politica dell’interesse nazionale capace di fare scelte strategiche.

C’è una partita politica sulla quale tutto il Paese si gioca il suo futuro. Questa partita non riguarda solo, come si ripete in un modo infantile che è figlio della malattia semplificatoria nazionale, l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) e l’utilizzo dei fondi europei di tutti i programmi finalmente riuniti sotto una unica delega ministeriale. La partita più politica della politica italiana riguarda da sempre l’organizzazione e l’efficienza della sua amministrazione centrale e territoriale. Che viene prima e dopo Pnrr e dintorni.

È la priorità delle priorità perché siamo l’economia che più cresce da tre anni tra le grandi economie europee e che da tre anni, dopo un’eternità, cresce di più al Sud che al Nord in termini di Pil e di nuova occupazione. È evidente che questa economia in espansione si nutre nel lungo termine di un’amministrazione efficiente. Anche perché la Zes unica e la decontribuzione strutturale sono due assi formidabili per rilanciare l’attrattività di capitali internazionali del Mezzogiorno italiano che l’Europa oggi ci riconosce in quanto unico grande hub energetico potenziale del Mediterraneo che può mantenere in vita le manifatture tedesca e italiana. Anche i Paesi del Nord Europa sono consapevoli che o si fa in questi territori o non si fa affatto. Non sfugge a nessuno che sportello unico e capacità decisionale esecutiva sono cruciali perché si realizzino sfide così ambiziose.

Tutto ciò, per capirci, può diventare la base strutturale di una rinascita economica e civile di lungo periodo, ma ha assoluto bisogno di un’amministrazione che ritrovi la sua élite di comando, un quadro diffuso di competenze specifiche, una regia politica centrale che tenga insieme i pezzi di governo dei territori regionali, metropolitani, comunali dentro un quadro unitario nazionale di poteri rigorosi, scanditi nei singoli pesi e anche di supplenza preliminarmente condivisi da tutti.

Questa è la sfida che sta conducendo, su delega diretta della premier Meloni, il ministro Fitto e che riporta le lancette della storia del Paese agli anni del primo, unico grande miracolo economico italiano che è quello del Dopoguerra quando in un decennio si trasformò un Paese agricolo di secondo livello in un’economia industrializzata e nel decennio successivo addirittura in una potenza economica mondiale. La sfida che ha davanti a sé l’amministrazione italiana e con essa la politica è oggi di durata ventennale come allora e i fondi europei di oggi sono il prestito Marshall di ieri.

La sfida è quella di porre le condizioni di contesto perché si determini come all’epoca una scossa di investimenti pubblici che alimenta a sua volta forti investimenti privati interni, aggiungendo a tutto una potenza di fuoco di investimenti esteri favoriti dal mondo di oggi della nuova globalizzazione dove si accorciano le catene della logistica ma restano decisivi i volumi del commercio globale.

Siamo il Paese delle piccole imprese invidiate nel mondo ma non abbiamo un numero di manager sufficienti per mettere in sicurezza queste aziende se il tessuto energetico, industriale, portuale e di economia del mare non si consolida come nuova locomotiva europea.

Di fronte a una sfida così capitale, che è quella del secondo vero grande miracolo economico italiano dopo il miracolo del Dopoguerra con l’Europa oggi nostra alleata, non avversaria, bisogna che accadano con urgenza assoluta due fatti e, soprattutto, che questi due fatti non siano l’espressione della volontà di una sola stagione politica ma di una strategia condivisa ventennale del Paese.

Il primo fatto riguarda opposizioni e sindacati che devono capire una volta per tutte che lo sforzo enorme del ministro Fitto, che ha anche ieri riferito in Parlamento sul suo lavoro in Europa, è quello di misurarsi a viso aperto senza infingimenti con il muro della inefficienza concorrente amministrativa e della paura della firma che bloccano tutto. Questo sforzo merita un sostegno unitario di principio senza se e senza ma che non vuol dire affatto approvare tutto a scatola chiusa, ma viceversa offrire soluzioni, risposte pragmatiche a problemi reali, collaborazione istituzionale.

Questo è un punto decisivo. Perché se non si coglie l’importanza strategica di tale passaggio e si ripete il solito copione della polemicuccia quotidiana gli elettori chiederanno conto delle macerie che ne discenderanno a loro come a chi ci governa. Questa visione di lungo termine del Paese e di coerenza di comportamenti politici e delle parti sociali è fondamentale per conseguire l’obiettivo finale.

Il secondo fatto riguarda invece chi ci governa oggi e chi ci governerà domani. Stiamo parlando dei prossimi venti anni e le grandi democrazie vivono di alternanza. Quelli di oggi e quelli di domani al potere, nell’amministrazione pubblica ministeriale e regionale, debbono smetterla di cercare di sostituire persone non vicine con persone vicine indipendentemente dalla qualità che queste persone esprimono. Questo è un punto dirimente.

Bisogna ovviamente intervenire, come si è fatto con l’agenzia di coesione che mai e poi mai avrebbe potuto adempiere al nuovo mandato per assenza di competenza specifica, ma bisogna poi costruire una macchina che mette alla sua guida competenze assolute che sopravvivono alla politica di oggi e di domani e generano al loro interno quella élite di competenze che si diffonde a raggiera e che gli uomini di governo devono assolutamente rispettare sul piano tecnico.

Il miracolo economico del Dopoguerra non ci sarebbe stato se De Gasperi prima e Fanfani dopo non avessero dato carta bianca a Gabriele Pescatore e alla sua Cassa delle opere di 300 ingeneri e se nella amministrazione dei ministeri non vi fosse stata la convinzione che le carriere e gli incarichi seguivano criteri di risultato perseguiti da una politica dell’interesse nazionale capace di fare scelte strategiche.

Quella lezione di allora è oggi di straordinaria attualità e vale per tutti. Cambiare la qualità del dibattito della pubblica opinione in Italia è fondamentale. Altrimenti anche il dinamismo delle nostre imprese e il desiderio di Italia nel mondo non saranno sufficienti per stabilizzare il secondo grande miracolo economico italiano. Che è già in atto da circa tre anni anche se nessuno lo dice. Perché la malattia nazionale del rumore che tutto nasconde è contagiosa e, per nostra sfortuna, ancora egemone.


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