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Bisogna dire alla Germania e ai rigoristi dello zero virgola che se pensano solo a rispondere alle proprie opinioni pubbliche sono i primi a non avere futuro e a Italia e Francia che noi dovremmo fare più riforme e loro capire che i sogni di grandeur sono sbagliati soprattutto quando sono a spese nostre. Il dibattito malato interno dei singoli Paesi impedisce l’accordo sul Patto. Ci vorrebbe un nuovo Delors per fare una politica europea estera, di difesa e economica. Si chiama Mario Draghi. Che, con la consueta lungimiranza, ha avvertito tutti: senza una maggiore integrazione l’Unione europea non sopravviverà se non come mercato unico.

SULLE nuove regole di bilancio europee siamo in una fase di stallo. Ci sono forti pressioni per chiudere, ma il risultato dovrebbe essere al momento la sintesi impossibile di enormi differenze di posizioni nazionali avendo tutti i Paesi esigenze politiche molto differenziate. Con il paradosso che la grande cucitrice del compromesso sul nuovo patto di stabilità e crescita europeo è la ministra dell’economia spagnola, Nadia Calviño, che è nel pieno di un vistoso doppio conflitto di interessi. Perché è dichiaratamente in corsa come espressione della componente socialista per la presidenza della Banca europea degli investimenti (Bei) dove servono i voti dei Paesi con cui tratta per il nuovo patto europeo e rimane ovviamente in pole position per la conferma in un eventuale nuovo governo Sanchez in Spagna.

La situazione vera tra Eurogruppo di ieri e Ecofin di oggi in cui si dibatte sul tavolo di nuovo Patto e sotto il tavolo di nomine alla Bei e altro ancora, è che ognuno resta sulle sue posizioni per motivi di politica interna di modo che tutti si domandano come se ne esce. Il ministro tedesco liberale dell’economia e delle finanze si trova in concorrenza con l’opposizione cristiano-democratica e deve difendere posizioni rigorose anche perché chi sta fuori glielo impone. Ognuno dei ministri dell’economia dei singoli Paesi che partecipano all’Ecofin sono in qualche misura prigionieri dei loro dibattiti politici nazionali che li condizionano e rendono oggettivamente più difficile l’accordo. L’imbarazzo dei rappresentanti di tutti i Paesi rigoristi è evidentissimo perché hanno scritto sulla faccia che sanno bene che se cedono anche su cose di assoluto buon senso verranno criticati.

La posizione francese riflette esigenze di legge di bilancio che hanno molti punti di contatto con quelle italiane e vogliono evitare soluzioni troppo rigorose esattamente come noi e in modo speciale su un indicatore specifico che è quello del rapporto deficit/Pil. Compresso in ambiti molto stretti inevitabilmente inciderebbe sui margini di crescita dell’economia francese come di quella italiana. Il risultato di questo dibattito politico malato interno dei singoli Paesi è lo stallo che oggi riguarda il nuovo Patto, ma in genere tocca proprio i capisaldi dell’Unione europea. L’Italia ha un motivo per andare avanti perché se tornano le vecchie regole si aprono le procedure di infrazione in quanto il divario nei numeri target esiste vistosamente e la Commissione sarebbe obbligata ad aprirla. Si può rispondere che ci abbiamo convissuto per una vita e visti i suoi contenuti di assoluta irrealtà poi di fatto accadeva poco o nulla, ma comunque è sempre meglio potersi muovere come Paese senza avere appiccicata addosso una procedura di infrazione.

Abbiamo interesse a portare avanti l’accordo se si arriva a una scelta che porti a un percorso “molto molto” graduale di discesa del rapporto debito/Pil e a una elasticità non assistenzialistica del rapporto deficit Pil al 3%. Il punto è che possiamo chiedere e difficilmente ottenere tutto quello che vogliamo, ma abbiamo il dovere almeno di prendere atto che i rapporti deficit/Pil e debito/Pil dobbiamo comunque tirarli giù. Dobbiamo prendere atto che non esistono soluzioni che ci lasciano fare quello che vogliamo. Si tratta di diluire nel tempo o per meglio dire di usare tutte le armi negoziali possibili per comprare un altro po’ di tempo, ma sarà difficile trovare il consenso comune su soluzioni troppo innovative che vadano oltre l’elasticità riconosciuta sugli investimenti del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) e di poco altro.

Per questo faremmo prima a convincerci che il nostro imperativo è crescere, crescere, crescere e che attuare il più speditamente possibile tutte le riforme contenute nel Pnrr facilita il processo di aggiustamento. Non pensiamo francamente di potere ipotizzare un futuro dell’Italia che esca dai binari di un percorso graduale che sfrutti la crescita che sa produrre per sostenere politiche restrittive che portino a un deficit/Pil sotto il 3% e a un debito/ Pil che scenda negli anni buoni di 2 punti e in quelli brutti di 1, non dello 0,1% o dello 0,2%. Certo, ci vorrebbe qualcuno che spiegasse alla Germania e ai Paesi rigoristi dello zero virgola tutti insieme che se pensano solo a rispondere alle proprie opinioni pubbliche interne sono i primi a non avere futuro e a Italia e Francia che farsi la guerra fa solo il bene delle corporazioni e che noi dovremmo fare più riforme e loro capire che i sogni di grandeur sono sbagliati sempre e in modo particolare se si fanno a occhi aperti e a spese nostre. Ci vorrebbe l’Europa e qualcuno che avesse almeno la forza politica di capire che il bandolo della matassa da districare è un altro e deve partire da una Unione Europea molto più profonda che unisca la politica estera, di difesa e di bilancio mobilitando investimenti comuni all’altezza della sfida non solo tecnologica e aumentando la produttività.

Ci vorrebbe un nuovo Delors per fare tutto questo che ha un nome e cognome. Si chiama Mario Draghi. Che, con la consueta lungimiranza, proprio ieri intervenendo a un evento del Financial Times, ha avvertito tutti: senza una maggiore integrazione l’Unione europea non sopravviverà se non come mercato unico. Non esiste l’Europa delle Nazioni, ma la patria europea da costruire in fretta.


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