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Palazzo Chigi

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Questo Paese non sta in piedi perché ha una classe politica che in cambio del consenso è disposta a vendere anche i parenti più stretti e commercia stabilmente in lusinghe e promesse più o meno effimere con i suoi elettori. I quali, a loro volta, o ci cascano o, peggio, premono per essere presi in giro. Fanno parte del problema. Quello che proprio non possiamo più permetterci è lo scambio dell’assistenzialismo dei Cinque stelle al Sud con l’assistenzialismo della Lega al Nord. Lo abbiamo già fatto in passato e abbiamo impiegato dieci anni per rimediare ai guasti prodotti in pochi mesi di ubriacatura da finta secessione diventata federalismo all’italiana. Non si dovrà più parlare di governo di unità nazionale che ha senso solo in condizioni eccezionali con una guida eccezionale. Forse, servirà piuttosto una grande coalizione che mette insieme un pezzo della destra, un pezzo della sinistra riformista e un pezzo del nuovo centro per fare muro contro vecchi e nuovi assistenzialismi e salvare il Paese da una caduta senza freni

La grande crisi richiede il New Deal invece noi vogliamo fare il Nuovo Assistenzialismo. Abbiamo degli esempi, anche molto recenti, di questo modo di concepire e attuare la politica che ancora oggi paghiamo. Purtroppo, nel movimento pentastellato al completo e nella componente leghista del centrodestra in modo particolare, si registra giorno dopo giorno una pericolosa impennata di decibel di queste pulsioni chiaramente elettorali che rientrano nell’antica, deteriore, tradizione del voto di scambio italiano e in quella populista che appartiene all’ultimo decennio ed è di fabbricazione e fattura ancora più marcate.

La vera domanda da porsi è se il centrodestra in queste condizioni sia capace di gestire il suo eventuale successo largo facendo muro di fronte alle pressioni assistenziali interne della Lega e, in caso di eventuale successo corto, sia capace di fare muro di fronte alle offerte di sostegno pentastellato per fare maggioranza in cambio della garanzia che verranno soddisfatte le loro richieste assistenziali. In questo caso, le pressioni populiste grilline avrebbero di sicuro l’appoggio della Lega sopravvissuta di Salvini. Come andranno davvero le elezioni lo sapremo solo a spoglio ultimato il 26 settembre e restiamo dell’opinione che mai come questa volta i sondaggi contino poco perché il governo di unità nazionale di Draghi rappresenta uno spartiacque nella storia repubblicana italiana.

Qualcosa di molto concreto, sul piano interno e internazionale, che rende questo appuntamento elettorale simile a quello del ’48. Proprio per questo sarebbe buona cosa fare almeno quello che Giuliano Amato ha auspicato, a modo suo, in una recente lectio alla Sapienza e, cioè, di evitare di andare verso una democrazia divisiva dove chi vince pensa di essere il padrone del mondo e chi perde lavora solo per delegittimare chi ha vinto. È quello che si è sempre verificato ed è proprio quello che invece non dovrebbe più accadere. Lo ha detto in modo un po’ aulico Amato, a modo suo insomma, ma lo ha detto. Questo tipo di approccio noi lo condividiamo in toto e riteniamo che sia decisivo nel confronto tra le grandi democrazie europee in termini di governabilità e di stabilità.

C’è, poi, una seconda osservazione di Amato che è conseguenza della prima e spinge a favorire una democrazia più partecipata dal basso. È corretta in linea di principio a livello di impostazione di base, ma in Italia c’è il rischio concreto che la democrazia più partecipata dal basso si traduca nel tripudio dei tanti comitati a cui non va bene mai niente. Che, a loro volta, si mescolano con i politici che non sanno fare niente e, quindi, è probabile che l’auspicio di democrazia non divisiva si tradurrebbe nella frammentazione decisionale e nella paralisi. Nel Mezzogiorno gli effetti potrebbero essere ancora più devastanti, ma in generale l’intreccio di interessi lobbistici, criminali e elettorali complicherebbe il quadro ovunque.

Paradossalmente dove ci sarebbero meno problemi è proprio in politica estera perché è quella meno disponibile per la classe politica di turno vincitrice. Tutti pensano che si può fare quello che si vuole, ma quando arrivano lì si dovranno mettere nella scia di quelli che comandano e si muoveranno dentro la cornice storica delle alleanze di un Paese. Perché tendenzialmente è ciò che conviene di più agli italiani e perché loro nuovi arrivati non hanno mai davvero forza sufficiente per fare diversamente. Allora, torniamo al problema vero della politica italiana che è quello di uscire dal tunnel dell’assistenzialismo o almeno di accettare una razionalizzazione delle pretese.

Questo Paese non sta in piedi perché ha una classe politica che non ha il coraggio di dire le cose come stanno. Perché ha una classe politica che in cambio del consenso è disposta a vendere anche i parenti più stretti e commercia stabilmente in lusinghe e promesse più o meno effimere con i suoi elettori. I quali, a loro volta, o ci cascano o, peggio, premono per essere presi in giro. Fanno parte del problema. A rompere questo circolo perverso può essere solo una pubblica opinione consapevole che fa capire ai politici che non possono fare morire il Paese sotto il loro duello all’ultimo sangue. Che peraltro avviene in questi giorni di convulsioni elettorali e inevitabilmente proseguirà nei mesi in cui si dovrà scrivere la legge di bilancio di autunno. In queste condizioni se non si vuole andare a gambe all’aria, la legge di bilancio si può fare solo con un accordo il più ampio possibile tra le forze che sceglieranno di fare muro contro le tentazioni assistenzialiste e quelle più stravaganti in sede europea che vanno entrambe contro l’interesse nazionale. Forse, bisognerà cambiare parola.

Non si dovrà più parlare di governo di unità nazionale che ha senso solo in condizioni eccezionali con una guida eccezionale. Forse, servirà piuttosto una grande coalizione che mette insieme un pezzo della destra, un pezzo della sinistra riformista e un pezzo del nuovo centro per fare muro contro vecchi e nuovi assistenzialismi e salvare il Paese da una caduta senza freni. Quello che proprio non possiamo più permetterci è lo scambio dell’assistenzialismo dei Cinque stelle al Sud con l’assistenzialismo della Lega al Nord. Lo abbiamo già fatto in passato e abbiamo impiegato dieci anni per rimediare ai guasti prodotti in pochi mesi di ubriacatura da finta secessione diventata federalismo all’italiana. Ora le cose stanno messe peggio perché il quadro internazionale è messo peggio. Non abbiamo i soldi per sostenere questo nuovo scambio scellerato. E se li avessimo e li utilizzassimo in un modo così sbagliato, faremmo il disastro sia del Sud che del Nord. Questa è la realtà.

Chiunque avesse l’onore della guida del Paese su scelta sovrana non discutibile degli elettori e si muovesse in questa miope direzione durerebbe solo qualche mese, nemmeno un anno. Perché appena mette tutto ciò che ha promesso o millantato nella legge di bilancio, i mercati se ne accorgono e noi cominciamo a ballare all’istante e tutte le diseguaglianze si allargano in modo esplosivo e toccano la carne viva delle persone. Quelli messi male affondano, quelli messi benino cominciano a stare male e quelli che stanno bene al massimo galleggiano. Saremmo al fallimento generale. Non è il caso di fare esperimenti in mezzo a una guerra mondiale a pezzetti e una stagione dell’economia globale che oscilla tra pre-recessione e recessione tout court. Soprattutto dopo che si è dimostrato agli italiani che nell’anno della guerra di Putin e degli shock energetici, inflazionistici e monetari, abbiamo avuto la migliore crescita europea, il migliore incremento dell’occupazione e la più forte discesa del debito pubblico dalla guerra a oggi. Il confronto per gli ultimi arrivati sarebbe impietoso.


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