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Mario Draghi

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Con questi nuovi 14 messi in campo sono 30 i miliardi che il governo Draghi utilizza a sostegno di un’economia ferita dalla guerra senza fare nuovo debito. La riduzione delle accise su carburante e metano fino a luglio. La revisione dei prezzi delle opere pubbliche per coprire (3/4 miliardi) i nuovi prezzi delle materie prime e non bloccare le opere del Pnrr. Il credito di imposta ampliato per le imprese energivore. Ma le parti più qualificanti della manovra riguardano semplificazioni e liberalizzazioni per gli investimenti energetici e il coraggio di aggredire gli extraprofitti delle società energetiche frutto di meccanismi distorsivi nella formazione dei prezzi del gas e delle conseguenti distorte speculazioni per sostenere con quelle risorse il potere d’acquisto delle famiglie ed evitare il blocco del ciclo produttivo delle imprese

Stiamo facendo miracoli senza imboccare la via facile dello scostamento che è semplicemente non percorribile perché sui mercati i rendimenti dei nostri titoli sovrani decennali hanno toccato il 2,82%. Che sono i massimi da inizio 2019 e coincidono con i livelli dei giorni terribili del Covid quando abbiamo preso impegni per 500 miliardi di debiti su scala pluriennale avendo la certezza che i nostri titoli sarebbero stati acquistati dalla Banca centrale europea (Bce) attraverso i suoi programmi pandemici. Tutto quello, cioè, che oggi non è più assolutamente possibile perché la direzione di marcia della Bce, ancorché più cauta della consorella americana, è quella di vendere progressivamente, non di continuare ad acquistare titoli italiani. Nella sua pancia, attraverso la Banca d’Italia, di nostro debito ce ne è per un ammontare di 700 miliardi che come capirete non è poco.

Stiamo grattando il fondo del barile per evitare di fare nuovo deficit e nuovo debito ottenendo il risultato opposto di quello che ci si prefigge che è sostenere il potere di acquisto delle famiglie e ridurre al massimo gli effetti negativi del caro materie prime sulla capacità produttiva delle imprese e sui conseguenti livelli occupazionali. Vale la pena di sottolineare che una politica economica così ferma e capace di fare le cose bandendo la solita logica italiana della propaganda politica di fare nuovo debito togliendo il futuro ai nostri giovani non appartiene alla tradizione di questo Paese. Che si scavi nei meandri nascosti dei mille miliardi di spesa pubblica italiana o che si vadano a colpire gli extraprofitti derivanti da meccanismi distorsivi e finanziari anomali nella definizione del prezzo del gas è per le nostre pratiche abituali di finanza pubblica una novità assoluta.

Il fatto che tutto ciò avvenga dentro uno scenario di economia di guerra e con un rischio reale di recessione, che per noi sarebbe la terza in meno di quindici anni, è la ulteriore dimostrazione che la guida della politica economica non è in mano alla consueta improvvisazione italiana. Pone le basi per ottenere in Europa quel Recovery energetico frutto di debito europeo comune che è la sola risposta possibile alla grande guerra delle materie prime che ha le sembianze dello scenario di guerra lunga come sembra, purtroppo, essere quello che scandisce l’azione dello Stato aggressore, Russia, nei confronti dello Stato sovrano libero aggredito, l’Ucraina. Lo scenario avverso correttamente già previsto nel documento di economica e finanza (Def) in una logica di doverosa trasparenza anche questa spesso offuscata in passato da ragioni di propaganda politica.

Con questi nuovi 14 miliardi (8 margini da Def, 6 da tasse su extraprofitti) messi in campo sono più di 30 i miliardi, due punti di Pil, che il governo Draghi utilizza a sostegno di un’economia ferita dalla guerra senza fare nuovo debito.

Servono per conseguire obiettivi di breve e di medio termine. Cominciamo dai primi. La riduzione delle accise su carburante e metano fino a luglio e il bonus confermato per 5,2 milioni di poveri. La revisione dei prezzi delle opere pubbliche per coprire (3/4 miliardi) i nuovi prezzi delle materie prime e non bloccare le opere del Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Un aumento dal 20 al 25% del credito di imposta per le imprese energivore. Sostegni agli enti locali, ospedali e amministrazioni pubbliche varie per fare fronte almeno in parte al caro energia.

La parte più qualificante della manovra è, però, un’altra e riguarda il coraggio di aggredire per importi senza precedenti gli extraprofitti delle società energetiche (tassa al 25%) frutti di meccanismi distorsivi nella formazione dei prezzi del gas e delle conseguenti distorte speculazioni finanziare per sostenere con quelle risorse il potere d’acquisto delle famiglie ed evitare il blocco del ciclo produttivo delle imprese energivore italiane e che di quelle distorsioni pagano il prezzo più elevato. Si fa politica economica non scaricando sul futuro i costi del presente ma cercando risorse buone scavando nei meandri nascosti della spesa pubblica e, soprattutto, in quelle distorsioni da rendite che sono frutto della stessa cultura nefasta del debito pubblico.

L’altra parte della manovra altrettanto qualificante riguarda i poteri speciali e l’abrogazione brutale di gran parte di quei veri burocratici e politici che sono alla base del ventennio italiano della più grande crescita corruttiva e della più bassa crescita economica. La spinta per gli investimenti energetici in materia di rinnovabili e di impianti storici in termini di semplificazioni e di liberalizzazione è oggettivamente rilevante. Sarà un caso, ma i frutti di una politica economica non più legata alla solita improvvisazione italiana cominciano a vedersi. Se è vero, come è vero, che diminuisce la disoccupazione, anche se la gran parte dei nuovi assunti è ancora con contratti a termine, in un momento in cui il mondo intero si sta fermando e noi cogliamo oggi i frutti di trascinamento di quella crescita record (+6,6%) conseguita dal governo Draghi nel 2021 che è l’anno peggiore della storia repubblicana italiana. Abbiamo per la precisione 800 mila occupati in più con un tasso di occupazione del 60% mai raggiunto, il tasso di disoccupazione scende all’8,2% e, negli ultimi due mesi, ci sono 103 mila nuovi contratti a tempo indeterminato e 19 mila a tempo determinato. Anche qui, dunque, qualcosa sta cambiando. Se è vero, come è vero, che sono solo i consumatori e le imprese italiane in Europa ad avere fiducia nel futuro mentre tutti i Paesi europei vedono nero. Vuol dire che si ha la percezione che almeno in casa la nostra economia è nelle mani chi conosce la materia che amministra. La gravità dei problemi che il mondo ha davanti a sé non assicura nessuna certezza. Un pizzico di fiducia in più però è già molto.


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