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Giorgia Meloni col ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto

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Il metodo giusto per occuparsi seriamente di futuro e preservare la corsa dell’economia italiana è proprio quello scelto dal ministro Fitto. Per portare a termine la riforma della governance degli investimenti con l’obiettivo di aprire i cantieri non di accatastare carte, la scelta politica strategica di riunire le deleghe impone di essere supportata da una squadra operativa di livello a cui sta lavorando giorno e notte Fitto per essere pronto a gennaio e potere almeno scendere in campo e giocare la partita. Il metodo è quello giusto prima di tutto perché non lo sentiamo mai fare polemica con chi lo ha preceduto. Poi perché sappiamo che non si è impelagato con Bruxelles in discussioni generiche e, tanto meno, di principio. Ha scelto l’approccio di sottoporre ogni singolo progetto italiano finanziato con fondi europei non a una radiografia, ma a una risonanza magnetica. Di modo che nulla possa sfuggire e tutti vengano posti di fronte alle loro responsabilità. Proprio quello che di sicuro avrebbero fatto Draghi e Franco.

SE E’ CONSENTITO bucare il rumore assordante che accompagna la votazione in Parlamento della parte meno rilevante e più impresentabile della legge di bilancio del governo Meloni che arriva a oscurare mediaticamente il molto di buono che indubbiamente c’è e che i mercati hanno mostrato di apprezzare, vorremmo occuparci in tempo utile del futuro del Paese. Che riguarda gli investimenti pubblici e la loro funzione di mobilitatori di investimenti privati e di creatori dell’unica crescita possibile per rendere sostenibile il nostro debito pubblico in una prospettiva di medio termine dentro un quadro di complicazione internazionale che riguarda la combinazione pericolosa tra riduzione degli acquisti di titoli sovrani da parte della Bce e il rialzo dei tassi legato alla lotta all’inflazione peraltro condotto con guida e scelte esecutive spesso improvvide.

Il metodo giusto per occuparsi seriamente di futuro e preservare la corsa dell’economia italiana rivelatasi la più resiliente in Europa, è proprio quello scelto dal ministro Fitto che è peraltro l’espressione della scelta politica strategica più rilevante compiuta dal governo Meloni. Quella di riunire sotto un unico dicastero in legame ombelicale con la presidenza del Consiglio le deleghe degli affari europei, del Piano nazionale di ripresa e di resilienza, del Fondo di Coesione e sviluppo, del Mezzogiorno.

Per portare a termine la più complicata delle riforme italiane, che è quella della governance degli investimenti con l’obiettivo di aprire i cantieri, non di accatastare carte, questa scelta politica impone di essere supportata da una squadra operativa di livello a cui sta lavorando giorno e notte Fitto per essere pronto a gennaio ed è di sicuro quella che permette almeno di scendere in campo e giocare la partita. Perché diciamo che il metodo Fitto è quello giusto? Prima di tutto perché non lo sentiamo mai fare polemica con chi lo ha preceduto, anzi lo sentiamo esplicitamente escluderla ogni volta che viene provocato sul tema. Poi perché sappiamo che, proprio per evitare che possa scoppiare nelle sue mani la bomba della spesa pubblica effettiva, che ha nel 2023 il primo vero banco di prova in virtù degli impegni assunti dalla Repubblica italiana con l’Europa in sede di sottoscrizione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza, non si è impelagato con Bruxelles in discussioni generiche e, tanto meno, di principio. Ha scelto l’approccio di sottoporre ogni singolo progetto italiano finanziato con fondi europei non a una radiografia, ma a una risonanza magnetica. Di modo che nulla possa sfuggire e tutti vengano posti di fronte alle loro responsabilità.

Sta facendo Fitto esattamente quello che di certo, se non ci fosse stato il Draghicidio del trio Conte-Salvini-Berlusconi con quest’ultimo nei panni del Comandante supremo che decide per tutti e stacca gli ormeggi della nave nel pieno del miracolo economico e della leadership politica europea italiana, avrebbero fatto proprio l’ex premier, il ministro Franco, il team di Palazzo Chigi e la Ragioneria generale dello Stato nel pieno dei loro poteri e nel legittimo esercizio compiuto delle loro responsabilità.

È ovvio che l’anomala campagna elettorale estiva dettata dai calcoli elettorali rivelatisi sbagliatissimi di Forza Italia e della Lega e preparata strumentalmente dai giochi pericolosi dei grillini sull’invio di armi all’Ucraina per la resistenza contro l’invasore Putin, non poteva non avere contraccolpi negativi attenuati peraltro da un’azione del governo Draghi che è andata ben oltre l’ordinaria amministrazione, ma che non avrebbe mai potuto prendere quelle decisioni politiche riformiste di riassetto di sistema e di governance degli investimenti assolutamente indispensabili e che, guarda caso, erano anche le stesse sulle quali si era fatta mancare la fiducia a lui personalmente e al governo di unità nazionale di cui aveva la guida.

Per tutte queste ragioni si capisce perfettamente che cosa ha spinto Fitto a mettere congiuntamente sotto stress tutti i soggetti attuatori coinvolti direttamente nella gestione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) e di incrociare scelte compiute e stato dell’arte dei singoli investimenti programmati con il capitolo imbarazzante per il nostro Paese del pessimo utilizzo delle risorse assegnate all’Italia, l’80% al Sud, per i programmi settennali che vanno dal 2014 al 2027 dei fondi di coesione e sviluppo. Quella che sta portando a termine Fitto potremmo chiamarla una sorta di operazione verità. Per cui non si parla più astrattamente e ideologicamente di aumento del costo delle materie prime e/o di scadenze da prorogare, ma di aumento del costo delle materie prime e del suo impatto su ogni singolo progetto. Su ogni singolo intervento. Su ogni dettaglio di ogni singolo intervento. Affiancando a questo lavoro di stress test una squadra di assoluto valore della nuova governance della macchina degli investimenti pubblici del Paese che sarà pronta a gennaio.

Ora le risorse finalmente ci sono, è un vero delitto rinunciare a quelle del Mes sanitario che è una cosa diversa del meccanismo europeo di stabilità (Mes) con tutti i suoi vincoli annessi e che permetterebbe viceversa di agire in modo effettivo per sanare la debolezza dei nostri pronto soccorso e accorciare le liste di attesa per l’utilizzo della sanità pubblica anche per malattie gravi con un costo marginalissimo rispetto ai tassi attuali e presumibilmente futuri. Comunque le risorse ci sono. Siamo seduti su una montagna di soldi. Dobbiamo solo dimostrare di essere capaci di spenderli e di saperlo fare non per finanziare marchette, ma per fare sviluppo, occupazione di qualità e ridurre le diseguaglianze. Anche qui esattamente quello che si è fatto nei sette trimestri consecutivi del governo Draghi che voleva concludere il lavoro, ma non gli è stato consentito.

A questo, e a null’altro, devono essere impegnate oggi tutte le energie di Giorgia Meloni tenendo a bada le intemperanze di un cerchio magico che fa fatica a capire quale è la portata in gioco e che, purtroppo, è priva delle competenze decisive per affrontare un incrocio della storia così delicato. Per evitare disastri, bisogna almeno prescinderne.


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