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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio

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Si capirà dal consiglio dei ministri di oggi se ci sono le condizioni per preservare quello status sorprendentemente acquisito in Europa di un esecutivo di destra centro che persegue un disegno di moderno conservatorismo e rifugge dal populismo o se quella stagione di continuità con il biennio magico di Draghi in termini di finanza pubblica, di collocazione europeista e di intuizioni strategiche di politica estera a partire dal Mediterraneo, non potrà più proseguire. Si capirà se la fame elettorale potrà convivere con la situazione dei conti pubblici e se si vuole sminare il terreno dalle mine demagogiche che tolgono credibilità internazionale.

SI CAPIRA’ subito dal Consiglio dei ministri di oggi del governo Meloni che aria tira. Si capirà, o almeno lo si spera, se ci sono ancora le condizioni minime per ripristinare e preservare a pieno titolo quello status sorprendentemente acquisito e riconosciuto da tutti in Europa di un esecutivo di destra centro che persegue un disegno di moderno conservatorismo e rifugge da ogni populismo o se viceversa quella stagione d’oro di buona continuità con il biennio magico della stagione di Draghi in termini di finanza pubblica, di collocazione europeista e di intuizioni strategiche di politica estera a partire dal Mediterraneo, non potrà più proseguire. Si capirà, o almeno si dovrebbe cominciare a capire, se ci sono ancora le condizioni per riuscire a fare quadrare senza sconquassi economici, sociali e reputazionali la fame elettorale (europea) degli azionisti politici della maggioranza di governo con la situazione reale dei conti pubblici, il rallentamento globale della crescita, l’incognita della bolla cinese e la stagnazione tedesca che si avvia pericolosamente a diventare strutturale.

Si percepirà soprattutto, almeno credo, se si è rinsaviti dai pericolosi sogni estivi e si vuole cominciare subito un lavoro serio per togliere dal tavolo tutte le mine demagogiche che loro stessi hanno disseminato lungo la strada della loro azione di governo. Devono sminare il campo come stanno cercando di fare gli ucraini nel Donbass e, soprattutto, devono farlo con velocità assoluta perché alcune di queste mine incidono sulla credibilità internazionale dell’Italia e hanno un riverbero diretto sulla spesa per interessi che lo Stato deve sostenere per collocare 400/500 miliardi di titoli pubblici all’anno per continuare a pagare stipendi e pensioni, oltre che garantire almeno il minimo vitale per sanità e scuola.

La prima mina da disinnescare è quella del colpo di sole di mezza estate della supertassa sugli extraprofitti delle banche perché così come è ancora configurata fa saltare decine di banche locali e aggrava la posizione di Mps che ha come azionista di maggioranza lo Stato e quindi va a pesare sui contribuenti. Perché la capitalizzazione delle banche italiane ha subito nonostante i recuperi una scoppola seria e le agenzie di rating potrebbero rivedere il giudizio sull’Italia per l’indebolimento di un settore bancario che si riteneva risanato e, soprattutto, perché agendo direttamente sui margini di interesse questa patrimoniale di fatto incentiva il disimpegno delle banche stesse dagli acquisti di titoli di stato italiani e questo crea dolori seri. Facciamola breve, da questo pasticcio bancario prima si esce ritirandolo o aggiustandolo brutalmente meglio è (seguire Tajani è ormai un atto dovuto). Al contrario, insistere nella rivendicazione del provvedimento o fare il doppio gioco di vendere agli elettori una finta supertassa che ne placa la sete di giustizia sociale non ottiene il risultato che si prefigge di entrate fiscali e attacca sulla maglietta della premier quella bollatura di populismo che era riuscita così abilmente ad evitare. Continuare ad alimentare le illusioni di un insostenibile dibattito sull’allargamento delle maglie del sistema pensionistico è pericolosissimo. Perché è la prenotazione pubblica di una sconfitta certa. Perché non si può aprire nemmeno il capitolo ed è ampiamente probabile che come l’anno scorso diventi una voce delle entrate, non di spesa della legge di stabilità. Meno si pronuncia la parola flat tax meglio è perché la stagione degli slogan è davvero finita e bisognerà fare i salti mortali per confermare il doppio taglio Draghi-Meloni del cuneo fiscale e renderlo strutturale ed è già difficilissimo trovare i 4/6 miliardi che servono per ridurre da quattro a tre le aliquote fiscali accorpando le due più basse.

Piuttosto, usando un linguaggio di verità, comincerei a spiegare bene i frutti del lavoro prezioso fatto da Fitto a Bruxelles che consente di estrarre dal Piano nazionale di ripresa e di resilienza, attraverso il Repower Eu, ben 14 miliardi di bonus per famiglie e imprese che può essere molto utile per fare innovazione energetica, combattere il caro prezzi e recuperare potere d’acquisto attraverso bonus ad hoc in special modo a favore dei ceti più deboli. Soprattutto, bisogna acquisire una postura europeista a 360 gradi, e non cambiarla mai più, esattamente come fa la Spagna dove popolari e socialisti si odiano ma sono uniti da una sola fede che è quella della convinzione che l’Europa è la migliore tutela del loro interesse nazionale. Questo Giorgia Meloni lo deve fare in modo pubblico con dichiarazioni chiare e comportamenti coerenti. Su questo verrà giudicata senza più quel mandato in bianco che si era conquistata prima del pasticcio sulle banche che è stato un vero colpo di sole di mezza estate.

Se c’è una cosa forte che ha caratterizzato l’azione in politica estera della Meloni, di Tajani e dell’intero governo è il fatto che l’Italia con la sua presenza in Africa copre un settore essenziale che altrimenti diventerebbe terra esclusiva di conquista delle armi dei russi e dei soldi dei cinesi. È stata una grande intuizione politica di Draghi che la Meloni ha saputo rilanciare bene secondo canoni che ricalcano l’orma di un pensiero illustre del passato come è stato quello dei La Pira, dei Fanfani e, in modo altissimo ma meno concludente, di Moro. Al merito della intuizione politica il nostro premier deve oggi fare seguire una progettualità politica che vada al di là delle chiacchiere. Una progettualità politica che consenta all’Italia di avere dall’Europa e dagli Stati Uniti gli strumenti per svolgere questa sacrosanta azione di leadership europea condivisa nei confronti del Nord Africa e del Mediterraneo allargato. Altrimenti né l’Italia né l’Europa stessa ce la faranno a contrastare il piano di insediamento stabile di russi e cinesi in Africa visto che lo attuano di giorno in giorno in misura crescente. Non aiutano in questo le titubanze sulla sottoscrizione del nuovo meccanismo europeo di stabilità (Mes) e la volontà solo dialettico-chiacchierologica di volere continuare ad alzare muri e rigurgiti nazionalisti sui migranti quando è chiaro a tutti che la soluzione sono il diritto di asilo e di lavoro europei e un approccio che costringa l’Europa a ripartire i pesi e assicuri all’Italia quella mano d’opera di primo, secondo, terzo e quarto livello di cui ha bisogno come il pane se vuole rimanere tra le grandi economie visto che da qui a vent’anni per il calo delle natalità potremmo passare da 60 a 40 milioni di abitanti e sarebbe bene almeno ricordarsi che il prodotto interno lordo di un Paese alla fin fine è la somma dei redditi che producono i loro cittadini. Senza nuovi arrivi siamo spacciati. Potere usare noi italiani e noi europei a pieno ritmo la leva finanziaria del conto capitale per gli investimenti in Africa e nella transizione ecologica, oltre che nella ricostruzione dell’Ucraina, può essere molto utile per la nostra economia e per la causa politica che si combatte. Per questo ottenere la presidenza della Bei con l’ex ministro dell’Economia del governo Draghi, Daniele Franco, sarebbe di certo molto utile sul piano economico ma esprimerebbe anche un messaggio oggettivo di credibilità internazionale della Meloni e del suo governo. Perché sarebbe chiaro a tutti che quando arriva l’Italia a trattare non arriva l’ultimo del villaggio, ma qualcuno che si è auto-inventato un ruolo e che, per questo, rappresenta oggi una avanguardia europea.

Si deve capire che l’Italia conta in Europa avendo almeno una figura di primo livello ai vertici delle istituzioni politiche e finanziarie europee. Si deve capire che l’Italia intera scommette sulla nuova centralità del Mezzogiorno come grande hub del Mediterraneo e centro del mondo capovolto con i suoi rigassificatori strategici e il patrimonio assoluto di energie rinnovabili di ogni tipo da sole, vento e maree. Su questa partita, prima di tutte, si gioca la forza della dimensione internazionale di politica estera di un Paese come l’Italia. Anche qui evitiamo populismi di ritorno, ambiziosi proclami e così via. Occupiamoci piuttosto di portare a casa le poltrone e i poteri che contano e di tessere le alleanze giuste se no tutto il palazzo da costruire del mondo capovolto cade al suolo come un cumulo rovinoso di illusioni e rende l’Italia agli occhi del mondo un birillo di cui ci si può sbarazzare con un refolo di vento.


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