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L’aggressione russa del 24 febbraio aveva prodotto in tutto l’Occidente una generale reazione a favore dell’Ucraina. I paesi occidentali dell’UE e della NATO, e loro alleati asiatici, avevano adottato senza apprezzabili differenza la “linea dura” di Washington: dure sanzioni e consistenti aiuti al paese aggredito. Le previsioni di Putin di un sostanziale loro appeasement, dopo qualche protesta formale, si erano rivelate errate. L’unanimità raggiunta aveva stupito gli stessi occidentali. Istituzioni multilaterali come la NATO, che venivano ritenute quasi irrilevanti, approfittarono della crisi ucraina per rivitalizzarsi.

Con il tempo, tale unanimità, seppure non è ancora entrata in crisi a livello dei governi, sta attenuandosi per la differenza degli interessi dei vari paesi e, soprattutto, per il fatto che le opposizioni sfruttano il costo delle sanzioni sulle loro economie nazionali per attaccare i governi. Quest’ultimi, seppure con sfumature differenti sulle politiche da seguire, vogliono la pace ad ogni costo, cioè in cambio di concessioni territoriali alla Russia da parte dell’Ucraina, altri danno priorità alla giustizia, cioè almeno al ripristino della situazione quo ante, se non alla punizione dell’aggressione, ad esempio finanziando la ricostruzione dell’Ucraina con i fondi della Banca Centrale russa, congelati nelle banche occidentali, e di quelli derivanti dalla vendita dei beni sequestrati agli oligarchi legati a Putin.

Sia i fautori del “partito della pace” che di quello “della giustizia” vogliono la pace. Differiscono fra loro sul tipo di pace e sulle modalità per conseguirla. Il loro dibattito – spesso “urlato” – anima gli schermi televisivi, soprattutto in Italia, dando spazio alle sue tradizionali tendenze di contrapposizione fra guelfi e ghibellini e di trasformazione in “baruffe chiozzotte” della lotta politica interna. I media ci sguazzano. Le urla non fanno informazione, ma aumentano l’audience.

Tutti, più o meno, stanno al gioco. Sanno che è ininfluente. Le decisioni sulla pace e sulla guerra spettano a Putin e Zelensky, prigionieri delle loro opinioni pubbliche e timorosi di perdere il loro potere. Anche i governi, pur influenzati dalla progressiva erosione dell’unanimità sulla line definita a febbraio, rimangono finora abbastanza indifferenti alla rissa. Sono consapevoli che una dissociazione dai loro alleati sarebbe pagata a caro prezzo. Ne sono convinte anche le MNC. Come avvenuto già nelle sanzioni all’Iran, le imprese, timorose di essere colpite dalle “sanzioni secondarie” americane, obbediscono al regime sanzionatorio deciso dagli USA, anche se i loro governi decidono di opporsi ad esso.

Comunque sia, un negoziato serio sarà possibile solo se entrambi i contendenti saranno persuasi di aver più da guadagnare nel tavolo delle trattative – di tregua o di pace – che dalla continuazione dei combattimenti. Tale situazione oggi non esiste. Il punto centrale di qualsiasi accordo è rappresentato dalla questione territoriale. Ne sono persuasi sia Putin che Zelensky, cioè quelli a cui spetta decidere.

Gli esiti delle operazioni influiranno sulle loro scelte più di quanto possono farlo le potenze esterne, in pratica quelle degli USA o dell’UE su Kiev. Anche la subordinazione degli aiuti militari all’Ucraina alla sua disponibilità a trattare ha ben poco senso. La massa – sembra l’80% – degli ucraini non sembra disponibile a cessioni territoriali. Ammesso ma non concesso che Zelensky sia disponibile a cedere territori in cambio di fine delle ostilità, ha le mani legate.

La situazione sul campo sembra sia mutata negli ultimi giorni a favore della Russia. La strategia operativa adottata da Mosca sta producendo buoni risultati. A differenza della prima fase dell’aggressione, in cui le azioni principali erano condotte su ampi fronti da forze di fanteria e corazzate, il compito principale nel punto di gravitazione degli sforzi offensivi russi, cioè nella parte occidentale del Donbass nella provincia di Luhansk, è affidato alla potenza di fuoco dell’artiglierie, dei lanciarazzi, degli elicotteri armati e degli aerei. Le fanterie sono quelle cecene e di mercenari di varia provenienza.

Il comando russo cerca di evitare sanguinosi combattimenti urbani. Aggira le città e le attacca solo dopo averle distrutte. Le forze sono state concentrate su un’unica direttrice d’attacco principale. Il comando è stato centralizzato. Le linee di rifornimento sono ridotte rispetto alla prima fase dell’aggressione.

I russi dispongono di una grande superiorità di fuoco, valutata dall’Institute of Studies of War, tenendo conto anche della loro illimitata quantità di munizioni. Gli ucraini non sono in condizioni di contrastarla. Mancano di armi che possano effettuare efficaci azioni di controbatteria contro le artiglierie e i lanciarazzi russi. Le loro fanterie subiscono rilevanti perdite.

Nel Donbass centrale, in particolare nell’area di Severodonetsk, hanno dato prova di qualche cedimento. La città – di 100.000 abitanti – che si sarebbe dovuta trasformare in una nuova Mariupol, resistendo a lungo all’offensiva russa frenandone l’avanzata – è stata rapidamente quasi circondata. Le fanterie cecene sono avanzate fino alle sue periferie. Nella sacca che si è determinata sembra siano rimasti 17.000 soldati ucraini, appartenenti a tre delle loro migliori brigate, più di un quarto delle forze dell’esercito ucraino schierate da Kharkiv al Donbass. È stata segnalata una carenza di coordinamento fra le unità ucraine della difesa territoriale e l’esercito regolare. L’insuccesso – la cui portata non può essere valutata compiutamente – ha indubbiamente avuto un effetto negativo soprattutto sul morale dei territoriali. Alto è stato fra loro il numero di prigionieri. Certamente non dimostrano la volontà di combattere come nella difesa di Kiev.

Non è possibile valutare se si tratti di un fenomeno temporaneo e locale o di uno che influirà sul prosieguo del conflitto. È troppo presto per dirlo. Avrà certamente ripercussioni anche nel dibattito in Occidente. Per il momento sta convincendo gli USA a fornire all’Ucraina Lanciarazzi Multipli a Lunga Gittata. La 41^ Field Artillery Brigade USA, di stanza in Germania, da cui verranno tratti i quattro sistemi che sarebbero dati all’Ucraina, ne dispone di due tipi: uno pesante, con gittata fino a 500 km, e uno leggero, il M-142 HIMARS (High Mobility Artillery Rocket System) con gittata dei suoi 6 razzi guidati fino a 300 km, trasportabile con C-130.

Essi dovrebbero dare all’Ucraina una capacità di controbatteria efficace contro i cannoni russi, di cui molti hanno, con proietti assistiti da propulsione a razzo, una gittata fino a 50 km, rispetto ai 25-30 km delle artiglierie di cui dispone Kiev. Le nuove armi potranno influire sull’esito dei combattimenti in Ucraina solo dopo 3-4 settimane d’addestramento del personale, che potrebbe essere già iniziato. Non saranno in condizioni di far sentire il loro peso negli scontri nel Donbass, ma nel proseguimento del conflitto. Sia a Sud, per la difesa di Odessa, sia a Ovest per quelle di Dnipro e di Kiev. Finora gli Usa non le avevano fornite all’Ucraina per il timore che Kiev le impiegasse per colpire il territorio russo in profondità, provocando un’escalation del conflitto.

Putin e Lavrov hanno già minacciato ritorsioni contro il paese fornitore, cioè gli USA. Come le precedenti, le loro minacce non conseguiranno alcun risultato. Rispetto alla potenza e alla gittata dei lanciarazzi multipli americani fanno sorridere le meditate elucubrazioni di Conte di non fornire all’Ucraina armi pesanti, ma semplici cerbottane, per segnalare il nostro indefesso sostegno dell’Ucraina! Fra lui e Salvini che vuole andare a parlare con Putin, il Poeta ci sta ripensando. Non chiamerà più l’Italia né “donna di province” né “bordello”, ma “paese dei pirla”.


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