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Il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi

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La guerra in Ucraina – drammatica e così vicina a noi – è per certi versi l’ultima tragica rappresentazione di un mondo che non ci sarà più: quello in cui Europa, Atlantico e Russia giocano un ruolo centrale nella geo-politica mondiale. Mi è già capitato di scrivere su queste colonne che il futuro si gioca nel Pacifico e non più nell’Atlantico. I fatti di questi giorni ne sono un’ulteriore dimostrazione.

Faccio riferimento alla visita del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che ha appena concluso un viaggio di dieci giorni in un arcipelago di isole del Pacifico occidentale (tra cui Papua Nuova Guinea, Isole Marshall, Palau, Micronesia, Nauru e Tuvalu) dopo che ad aprile era stato stipulato dalla Cina un accordo di cooperazione per la sicurezza con le Isole Salomone: un episodio che aveva preoccupato non poco Australia e Stati Uniti circa le ambizioni di Pechino.

L’OBIETTIVO POLITICO

In effetti, quanto sta accadendo rappresenta un oggettivo salto di qualità nella politica estera della leadership dell’ex Impero di Centro. Se ci guardiamo indietro e analizziamo quanto fatto da Pechino in Africa – continente ormai a trazione economica cinese – e con la Belt and Road Initiative – progetto multilaterale lanciato nel 2013 da Xi Jinping, che coinvolge oltre 70 Paesi e mobilita risorse per oltre 1 trilione di dollari – ci rendiamo conto che la prospettiva di espansione internazionale della Cina era sempre stata di stampo quasi esclusivamente mercantilistico: accordi commerciali, investimenti infrastrutturali, erogazione di finanziamenti con l’obiettivo di esercitare in subordine una sfera di influenza politica.

L’azione condotta in questi mesi nel Pacifico assume connotati deliberatamente politici: l’accordo con le Isole Salomone e il tentativo (fallito) con i mini-stati, isole dell’Oceania, evidenziano infatti un obiettivo di cooperazione per la sicurezza e l’esercizio di un’attività militare coordinata. Risulta, in questo senso, evidente la duplice volontà di Pechino di creare, da un lato, un sistema di alleanze da contrapporre all’altra super-potenza, gli Usa, e, dall’altro, di trasformare l’Asia nel baricentro della sua sfera di influenza (così come gli Usa provarono nel secolo scorso con le Americhe).

ALLENZE FALLITE

Sorge spontanea una domanda: per quale motivo queste azioni nel Pacifico si concentrano proprio nel momento in cui imperversa la guerra in Ucraina dove la Cina potrebbe giocare il ruolo di mediatore interessato? Vi sono molteplici spiegazioni possibili. In primo luogo, vi è una ragione di sicurezza: le navi mercantili cinesi transitano nel Pacifico ma sotto strettissimo monitoraggio americano, che vanta la presenza di numerose porta-aerei nell’area; la possibilità di installare basi militari nell’area del Pacifico occidentale potrebbe dunque attenuare la pressione percepita da Pechino.

Vi è in seconda battuta una ragione squisitamente politica: molti dei micro-stati di questa parte del Pacifico vantano stretti legami e/o riconoscono Taiwan. Con questa mossa Pechino avrebbe voluto determinare il progressivo isolamento della provincia (Taiwan) da annettere. Vi sono infine determinanti di natura economica: da un lato, vi sono da rilevare investimenti cinesi molto importanti in queste isole, dall’altro, questa porzione di oceano è fonte primaria di importanti risorse (pesca) per la Cina.

Altrettanto interessante è chiedersi perché il tentativo è fallito: il ministro Wang Yi si è infatti dovuto accontentare di tornare in patria con un generico accordo commerciale, di collaborazione sul fronte dell’agricoltura e del cambiamento climatico, ma senza alcuna condivisione delle politiche di sicurezza, che invece era il vero obiettivo del Partito Comunista.

Probabilmente la mossa di Pechino è stata percepita come troppo aggressiva – in un contesto in cui appare chiaro a tutti che il confronto tra Usa e Cina diventerà sempre più muscolare – e giudicata come intempestiva: ritengo infatti che il Partito Comunista abbia impresso un’accelerazione (eccessiva) alla promozione di questo tipo di piattaforme di collaborazione per la sicurezza come reazione al rinnovato progetto Pivot to Asia inizialmente voluto da Obama e ora ripreso in mano con vigore dal Presidente Biden. Questa accelerazione, tuttavia, ha probabilmente imposto il sacrificio di alcuni passaggi intermedi di dialogo e questo si è rivelato un errore fatale (quantomeno per il momento).

LA MANOVRA ECONOMICA

Se guardiamo al futuro, non mi immagino comunque una ritirata dei cinesi rispetto alle ambizioni già dichiarate: credo che rinserreranno i ranghi, definiranno ulteriori manovre di avvicinamento di stampo economico, cercheranno di valorizzare i leader politici di questi micro-stati.

Il tutto nella prospettiva di contenere l’avanzata americana, che si è recentemente tradotta nel rilancio di Quad (l’alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Usa con lo scopo di contenere l’espansionismo cinese nella regione dell’Indo-Pacifico) e nel varo di un’idea di piattaforma economica che coinvolge molteplici Stati asiatici, denominata Indo Pacific Economic Framework.


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