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Il Regno Unito ancora per poco e il Commonwealth delle Nazioni, che in comune hanno soltanto Lei ed aspettano che se ne vada per diventare repubbliche, hanno cominciato a festeggiare i quattro giorni che stanno celebrando il Giubileo di platino di Elisabetta II, che ha già avuto quello d’argento, quello d’oro e quello di diamanti ed è arrivata dove nessun sovrano inglese era mai arrivato, e forse non soltanto inglese, a parte, tra i pochissimi, l’imperatore del Giappone, lo “storico” Hirohito.

Settant’anni sul trono, 96 di vita: la Regina è nata lo stesso giorno di Roma, il 21 aprile, anno più anno meno scherzano i battutisti. Non era nata per essere regina, ma una delle tante principesse inglesi, giacché suo padre era un figlio cadetto del re di allora, Giorgio V. Poi Edoardo, il figlio maggiore e candidato re (lo fu anche brevemente), si innamorò di una bidivorziata americana, volle sposarla e rinunciò alla corona. Così il padre della principessina, l’eroico e balbuziente Bertie, diventò re Giorgio VI, lei l’erede.

È noto che salì principessa e scese regina da un albero in Kenya, dove in quella stravagante situazione la raggiunse la notizia della scomparsa del re. Le portarono un vestito nero all’aeroporto di Londra e un immancabile cappello: si cambiò in aereo e ai piedi della scaletta la aspettava il suo governo, in prima fila il premier Winston Churchill con cui amava conversare: era l’uomo che aveva vinto la guerra ma, cosa ancor più importante, amava i cavalli. Proprio come quella giovane mamma (Elisabetta aveva già due dei suoi quattro figli) che se non fosse stata regina avrebbe vissuto nella campagna inglese, o magari scozzese che Le piace di più, allevando purosangue ma non solo, cavalli d’ogni razza, cani di razza corgi e piccioni viaggiatori.

I cavalli Le hanno dato piena soddisfazione, vincendo tutti i gran premi meno uno, ahilei proprio il Derby, e vincendo anche alle Olimpiadi. I figli un po’ meno, tra divorzi anche se non più costituzionalmente scandalosi e storielle e storiacce varie. I preferiti, poi, i peggiori: come il duca di York coinvolto in faccende di abusi sessuali, o il nipote Harry con la moglie americana. Come rivivere l’annus horribilis della “guerra dei Galles”, quella tra Carlo e Diana, il 1992 quando s’incendiò pure il castello di Windsor. Della regina i royal watchers, che sono quelli che non si fanno gli affari loro, pensano di sapere tutto, soltanto perché sanno cosa ha nella borsetta che le pende sempre dal braccio: il rossetto, i documenti no, perché è lei stessa il proprio documento d’identità. Dicono che non la porti per tutte quelle cose che le signore, Mary Poppins del quotidiano, sanno infilarci e tirar fuori ma solo perché è il suo linguaggio dei gesti, se la sposta si sta annoiando e chiede soccorso a un gentiluomo di corte che la liberi di una seccatura o un seccatore.

Ne ha avute, personali, politiche e così via. Tutto si sa, ma non, per esempio, come la pensi politicamente. Non vota, non esprime giudizi, al massimo, magari, consigli nell’udienza settimanale con il premier. Forse voterebbe conservatore, ma non per Johnson, magari per Theresa May e i suoi tre fili di perle. Non si conoscono sbandate sentimentali: aveva nel cuore sempre e solo Filippo anche se Le camminava un paio di passi dietro. “La mia forza” ha detto.

Le sue idee le ha trasmesse in gesti: stimava Mandela e gli consentiva di chiamarla Elizabeth; all’ippodromo, qualunque ippodromo, partecipava anche scommettendo oltre che tifando per i suoi cavalli; ha sempre vestito colori pastello ma “vistosi”, perché una regina o la vedi o non ha valore; sempre in guanti per le troppe mani da stringere; all’inizio gli stilisti la criticavano, ma poi è diventata un’icona di stile.

È in questi giorni di giubilo e Giubileo che è forse se stessa, finalmente: chiacchiera sul balcone di Buckingham Palace con uno dei pronipoti, il piccolo Perince Louis; manda il principe ereditario Carlo a leggere il discorso della Corona in Parlamento perché non sta bene ma il giorno è guarita per assistere all’Horse Show a Windsor. La Brexit? Non una parola: sarebbe politica. Va a vedere i fiori a Chelsea, paga l’oyster per prendere la metro che porta il suo nome, manda alla famiglia del Commonwealth un messaggio che si conclude “pensiamo al futuro”, come durante il lockdown aveva scaldato gli animi dicendo semplicemente “ci incontreremo di nuovo”.

Sul balcone, di celeste vestita, ieri era circondata dalla famiglia assottigliata: tre figli (Andrea in questi giorni ha opportunamente preso il Covid…), il nipote re di domani, William, tre pronipoti e un po’ di cugini, tutti alle prese con i problemi della vecchiaia. Ma lei era là, al centro della scena, appoggiata al bastone che ormai la sorregge e pronta a spiegare tutto al piccolo principe che la chiama “Gan Gan”, lei che da bambina era Lilibet, come la pronipote “americana” che ha appena conosciuto. Prima aveva assistito alla parata militare cui aveva sempre partecipato cavalcando, ieri aveva al fianco uno dei cugini, lo smunto duca di Kent. Da una finestra c’era a guardarla Meghan, che s’era messa un cappello dal cupolesco diametro, tanto per non farsi notare…

Disse una volta un ex re, Faruk d’Egitto: le monarchie scompariranno, al mondo resteranno solo i re di cuori, di quadri, di fiori e di picche e la regina d’Inghilterra. God Save the Queen.


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