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Papa Francesco

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SI SCRIVE Opus Dei, si legge – forse anche da Papa Francesco – strapotere terreno in nome Dio. Radicato, invasivo e perfino tentacolare. Dalle strutture sanitarie di ogni ordine e grado alle banche, daiistituzioni finanziarei al giornalismo. Una organizzazione in mano a eminenti in abito talare operanti nella più assoluta autonomia rispetto alla Chiesa e con discrezionalità pressochè illimitata. A passo felpato si collocano in posti chiave laici fidelizzati senza che nessuno debba risponderne se non all’alto prelato di turno. E non siamo alla pubblicistica romanzata di Dan Brown nel suo “Il Codice Da Vinci”, ma nella realtà della selezione di elitès pubbliche.

Chissà se fosse proprio questo l’obiettivo che si prefiggeva fin dal 2 ottobre 1928 quel giovane aragonese, Josè Maria Escriva de Balaguer, che abbacinato dall’idea di annullarsi in Dio ben coniugandolo però con le sirene del capitalismo americano, decise di fondare l’Opera. Una visione salvifica del denaro all’ombra di punizioni anche corporali. La crescita esponenziale degli iscritti soprattutto in America latina gli avrebbe in qualche modo dato ragione, se non fosse che nei decenni successivi l’Opus Dei sarebbe divenuta principalmente una potente, temuta e molto opaca struttura di potere svincolata da qualsiasi controllo dell’autorità ecclesiastica.

Eppure in Vaticano qualcosa si è mosso, proprio in questi ultimi giorni. Per tutto il primo decennio di pontificato papa Francesco aveva tenuto sotto osservazione l’anomalia dell’Opus dei, unica struttura a costituire una prelatura personale autonoma e operante quasi in regime di extra territorialità. Prima la riforma dirompente della Curia romana con la Costituzione evangelica “Predicate evangelium”, poi un provvedimento ad hoc per le prelature personali e dunque per l’Opera, l’unica ancora esistente con questo status. Ed ecco una nuova rivoluzione in Vaticano voluta da Jorge Mario Bergoglio. In questi assolati giorni ferragostani rischia infatti di passare in sordina un autentico sovvertimento negli organismi pontifici. Il Papa ha appena siglato infatti un documento “Motu proprio”, “Ad charisma tuendum”, che ridisegna radicalmente le prelature personali. L’unica, appunto, è l’Opus Dei che in pochi tratti di penna di Papa Francesco perde completamente la specificità detenuta finora.

Anzitutto cambia il Dicastero vaticano di riferimento: non più il potente Dicastero per i vescovi, ma quello per il Clero. Ancora: l’Opus non potrà essere più retta da un vescovo, come invece per oltre mezzo secolo. Infine: tutte le questioni riguardanti l’Opera devono essere ricondotte al nuovo Dicastero competente. Come dire: l’Opus Dei smette di essere una struttura separata e a gestione autonoma e diventa un normale organismo della Santa Sede, una associazione. Un vero e proprio svuotamento di funzioni che sovverte totalmente il provvedimento di Karol Wojtyla che con la Costituzione “Ut Fit” nel 1982 aveva istituito l’Opus Dei come prelatura personale. La particolare predilezione di Giovanni Paolo II per questo movimento cattolico dai tratti spesso marcatamente integralisti fino all’intolleranza, si sarebbe poi tradotta perfino nella canonizzazione di Escrivà de Balaguer nel 2002.

Bergoglio segna in tal modo una discontinuità nettissima con il pontificato di Wojtyla e la visione stessa della Chiesa in rapporto ai movimenti cattolici. Ma non è la prima volta che Francesco ha il coraggio di ribaltare i suoi predecessori: qualcosa di identico era accaduto anche nei confronti di Benedetto XVI allorchè Bergoglio decise di cancellare un decreto di Ratzinger (Summorum Pontificum del 2007) con il quale si liberalizzava la messa in latino propugnata dai cattolici ultra tradizionalisti lefebvriani. Nel caso dell’Opus Dei si tratta di una iniziativa storica e destinata a lasciare il segno nella Chiesa. In tre articoli del Motu proprio vergati dal papa argentino si chiude definitivamente una fase storica molto controversa durata da Giovanni Paolo II in poi. E all’indomani del provvedimento anche le voci ufficiali dell’Opus rivelano un qualche sconcerto non privo di preoccupazione.

“Accogliamo con sincera obbedienza filiale le disposizioni del Santo Padre e per chiedervi di rimanere, anche in questo, tutti molto uniti”, sono le parole del prelato monsignor Fernando Ocariz. Obbedienza nostro malgrado e timore per una possibile diaspora degli affiliati all’Opera, sembra dire dunque il responsabile. I nipotini del fondatore dell’Opera Escrivà sono a buon ragione colti di sorpresa. Forse realizzano solo oggi fino in fondo la sostanziale anomalia giuridica dell’Opus nell’ambito delle istituzioni vaticane e anche la stravagante autonomia goduta per decenni con l’assenso di pontefici quali Wojtyla, promotore – come sottolinea Alfonso Botti su “Il Mulino”- di un “cattolicesimo identitario e trionfatore”. Tutto l’opposto di quello propugnato da Francesco con la sua immagine di “Chiesa come ospedale da campo per i più poveri, i derelitti, i senza voce”. Una Chiesa che non può ammettere al proprio interno corpi separati e tali da essere sottratti a qualsiasi forma di controllo. Con il rischio di fomentare “ nuove forme di clericalismo ed elitarismo” contro le quali Bergoglio ha messo nuovamente in guardia in un suo forte discorso al clero appena una settimana fa.

La riforma senza precedenti della Curia romana voluta da Papa Francesco non poteva, d’altra parte, ammettere l’esistenza di zone franche come l’Opus Dei. E non è detto che Francesco non si riferisse anche all’Opera quando in una intervista dei primi di agosto a “Vida Nueva” confidava di “non aver ancora osato di mettere mano alle corti di Curia”. Oggi è stato compiuta una vera e propria svolta. E con i suoi circa 90mila affiliati e duemila sacerdoti l’Opera potrà pure apparire ancora un gigante. Ma d’ora in poi dai classici piedi di argilla.


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