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Antica mappa del Mediterraneo su maioliche medioevali in una chiesa di Amalfi

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Viviamo tempi interessanti, forse troppo. Politica, imprese ed individui si trovano infatti a dover affrontare un insieme di forzanti di cambiamento la cui sovrapposizione qualifica il periodo attuale come quello a massima complessità nella storia moderna.

Alla sfida ambientale – che ormai è diventata priorità assoluta di Governi e imprese da quasi un decennio – e al ruolo sempre più rilevante della trasformazione digitale – che impone a individui e soggetti economici/istituzionali di cambiare comportamenti, decisioni e competenze – si aggiunge la rottura dell’ordine mondiale unipolare che abbiamo imparato a conoscere. Essa determina sì importanti fattori di incertezza e discontinuità ma apre anche nuove dimensioni di centralità: tra queste, sicuramente dobbiamo annoverare la crescita di rilevanza che il bacino e l’area Euromediterranea potrà giocare su scala globale. Cerchiamo di capire il perché, avendo ben presente che gli ultimi decenni si sono caratterizzati per un’alternanza di progetti di integrazione e processi disgregativi dell’area.

Il sogno Euromediterraneo trasse, in particolare, grande linfa dalla caduta del muro di Berlino. Era il periodo in cui Francis Fukuyama aveva proposto l’idea della fine della storia del confronto ideologico tra il liberismo occidentale e l’impero sovietico il cui collasso attribuì una maggiore compattezza al bacino del Mediterraneo fino ad allora diviso in quanto i paesi in via di sviluppo (Algeria, Libia, Siria, per citarne alcuni) che vi si affacciano era stati fino a quel momento pro-URSS.

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Non a caso nel 1995 si tenne a Barcellona la prima Conferenza Ministeriale Euro Mediterranea, segno evidente della nascita di una nuova Epifania geopolitica in cui la trazione americana acquisiva una leadership indiscussa e l’ottimismo risultava essere il sentimento prevalente anche nel nostro Mare di Mezzo. Immediatamente a valle furono anche lanciati i programmi MEDA finanziati dalla Commissione Europea con l’obiettivo di supportare le politiche di sviluppo dei paesi dell’area e di stimolare le società civili verso un percorso di maggiore convergenza e consapevolezza dei destini condivisi nel Mediterraneo.

Gli attacchi terroristici del 2001 alle Twin Towers rappresentarono un brusco risveglio rispetto all’utopia pacifica emergente, determinando di fatto l’affacciarsi di un nuovo sistema geopolitico fondato su un sempre più chiaro conflitto di civiltà tra mondo occidentale e quello islamico; questi sommovimenti (tradottisi in guerre in Iraq e Afghanistan) non modificarono apparentemente il processo di progressiva integrazione euromediterranea in corso; tant’è che nel 2004 l’allora Presidente della Commissione Romano Prodi lanciò la European Neighbourhood Policy, che portò alla creazione nel 2008 dell’Unione del Mediterraneo, inteso come schema di cooperazione dei Paesi che gravitano nell’intorno del bacino.

In verità erano già in incubazione sommovimenti e tensioni sociali – facilitati anche dal progressivo disimpegno americano – che nel 2011 diedero luogo alla cosiddetta primavera araba – scoppiata inizialmente in Tunisia – evidenziando fratture profonde tra differenti aree del Mediterraneo. Più in generale, risultò chiaro a tutti che le tensioni che si stavano verificando a livello globale avevano ormai determinato un impatto importante sul fronte della cooperazione Euromediterranea; con il passare degli anni la situazione infatti è ulteriormente peggiorata tanto che le frizioni sempre più evidenti fra la parte settentrionale e quella meridionale del Mediterraneo allargato hanno portato in molti a qualificarlo come l’area dove con maggiore evidenza emergono le linee di frattura planetarie indicate da Samuel Huntington nelle sue riflessioni in tema di scontro fra civiltà.

Paradossalmente però, mentre il corso della storia sembra agire in senso “anti mediterraneo”, si creano i presupposti di una rinnovata centralità dell’area a livello globale, una centralità che per trasformarsi in un valore positivo richiede una presa di coscienza dei fattori di complessità e delle opportunità insite nell’area. Partiamo da quest’ultime. Il (piccolo) Mare Mediterraneo è cerniera di congiunzione tra Oceano Atlantico e Pacifico, il che rende il Mare Nostrum un incrocio logistico fondamentale a livello globale: pur rappresentando infatti solo l’1% della superficie marittima del Pianeta, è teatro di circa il 15% del traffico marittimo mondiale e del 20% del valore degli interscambi commerciali totali.

In termini geopolitici, rappresenta il luogo dove si incrociano tre continenti e questo determina due conseguenze importanti: da un lato, vista la complementarità che esiste dal punto di vista energetico nell’area – ad un’Europa in cerca di approvvigionamenti si contrappongono Africa e Asia ove esiste ampia disponibilità di energia (anche rinnovabile) – il Mediterraneo acquisisce un ruolo geo-strategico ancora più rilevante anche in virtù del conflitto in Ucraina.

Dall’altro, il Mar Mediterraneo è luogo dove sono posati quei cavi marittimi che rappresentano lo strumento indispensabile di abilitazione delle connessioni via Internet nel mondo, in questo senso, il Mare di Mezzo acquisisce un’importanza sempre più rilevante anche dal punto di vista militare e della sicurezza. Dal punto di vista invece dei fattori di complessità dell’area, tre più di altri meritano di essere citati: in primo luogo, l’imponente flusso migratorio frutto del collasso economico e politico solo in parte dipendente dalle primavere arabe; in seconda battuta, il ritorno di fiamma della Federazione Russa, che giocando un’ingerenza sempre più marcata nel conflitto siriano e guadagnando posizioni in Libia ambisce a destabilizzare l’Europa; infine, il soft power cinese che offrendo programmi di sostegno economici a numerosi stati africani è ormai in grado di esercitare un’influenza non secondaria nell’area.

Se questo è quadro di riferimento, è dunque fondamentale costruire una politica proattiva per il Mediterraneo; la storia (fin dall’Impero Romano) ci insegna in particolare che la prosperità dell’area è strettamente connessa alla presenza di una leadership unitaria. Cerchiamo di mettere ordine e capiamo, prima, perché è importante il varo di una politica unitaria e analizziamo, poi, chi può giocare il ruolo di king maker.

Investire nel Mediterraneo non è importante e utile solo per i Paesi prospicenti ma per il Vecchio Continente tutto. Il Mediterraneo deve essere concepito sempre più come porta (logistica) a sud dell’Europa e in quanto tale devono essere realizzati importanti piani di investimento in grado di facilitare e orientare l’imponente interscambio commerciale tra parte orientale e occidentale del mondo – oltre l’80% delle merci transita ancora oggi infatti per via marittima -. Il Mediterraneo è anche perno di un asse nord-sud, che nel quadro della globalizzazione emergente diventerà sempre più rilevante in virtù della grande crescita economica prevista nel continente africano: Banca Mondiale e non solo addita l’Africa come paese protagonista della crescita del mondo nei prossimi decenni.

Nel continente africano si stanno peraltro creando i presupposti per la creazione di un mercato unico: l’African Continental Free Trade Area (ACFTA), che vede coinvolti tutti gli stati ad eccezione dell’Eritrea e prevede l’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti e dei servizi, con l’obiettivo di incrementare il volume degli scambi commerciali tra i diversi Paesi e favorire la creazione di milioni di posti di lavoro. Per nemesi, l’area Mediterranea – confluenza di culture millenarie molto diverse ma demograficamente non sincrone (ad una popolazione anziana della parte nord si confrontano i molti giovani dei paesi africani) – può e deve trasformarsi in un hub in cui si sviluppa una politica convergente sulle persone trasformando le politiche, attualmente difensive, di natura migratoria in programmi di valorizzazione e impiego di migranti nelle sempre più vuote fabbriche ed esercizi commerciali del Vecchio Continente.

In questo disegno, l’Italia può e deve giocare un ruolo centrale: finalmente non all’inseguimento di politiche di altri Paesi (Usa, Francia o Germania) ma come protagonista di un disegno geopolitico che ambisce a scaricare a terra i cavalli conseguenti a queste opportunità, garantendo peraltro condizioni di sicurezza al Bel Paese.

È in primo luogo importante che il Governo prosegua nella direzione della presa di coscienza della rinnovata centralità dell’area e del ruolo che l’Italia, al centro del Mare di Mezzo, può giocare. Grazie a questa consapevolezza è, in secondo luogo, fondamentale che si cominci a giocare una partita proattiva anche rispetto ad altri Paesi (Francia e Spagna, in primis): nella consapevolezza che per collocazione geografia, storia e sistema di relazioni possiamo acquisire quel ruolo di leadership nella regione che solo all’epoca dell’Impero Romano eravamo riusciti a conseguire.

È conseguentemente fondamentale concepire le politiche di sviluppo del Mezzogiorno non tanto come programmi a sostegno di un’area in difficoltà e, quindi, come un sistema di intervento “locale per il locale” quanto piuttosto come un piano di azione che trova la sua ragion d’essere nel fondamentale contributo che determina per la competitività futura dell’Europa.
In questo senso, possiamo immaginare che il processo di Barcellona (1995) riprenda un suo vigore ma con un fattore di novità: il consapevole ruolo di una Italia che quantomeno a livello europeo ambisce ad ergersi come perno di un asse nord-sud, che sarà sempre più centrale per il futuro (di pace) del nostro pianeta. La storia non bussa due volte, l’occasione è qui e ora: cogliamola, con la consapevolezza della competenza, della lungimiranza e della determinazione.


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