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Emmanuel Macron e Mario Draghi durante l'incontro di giovedì scorso a Bruxelles

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UN vertice interlocutorio con una decisione storica. Questa può essere la definizione adeguata per descrivere il Consiglio europeo del 23-24 giugno, sullo sfondo del conflitto russo-ucraino e della sua cronicizzazione. Il passaggio storico riguarda naturalmente il via libera all’unanimità alla candidatura all’adesione dell’Ucraina (e della Moldavia). Per quanto riguarda l’aggettivo interlocutorio occorre invece una precisazione: interlocutorio non significa inutile, né trascurabile. E spesso, guardando ad un’evoluzione di medio-lungo periodo, le accelerazioni giudicate come scatti in avanti virtuosi dell’Ue sono state il frutto di lenti e difficoltosi passaggi simili a quelli di questo inizio estate.

Per descrivere meglio la due giorni dei Capi di Stato e di governo a Bruxelles partiamo da un commento di Mario Draghi a proposito dell’attitudine europea nei confronti di Mosca. Draghi ha ribadito che le sanzioni, nel tempo, fanno male. L’esempio più lampante è quello del petrolio russo, che a seguito dell’embargo europeo, viene oggi in larga parte commercializzato verso l’Asia (Cina e India) ma a prezzi poco vantaggiosi per il produttore. Se il trend di discesa dei prezzi del Brent e del WTI dovesse essere confermato nelle prossime settimane, il petrolio russo già venduto a prezzi scontati, produrrebbe margini di profitto irrisori per Mosca.

Si tratta solo di un esempio per esprimere un concetto fondamentale: i Paesi dell’Ue sono in grado di reggere l’urto del conflitto sul medio-lungo periodo? La vittoria finale è tutta qua. I Paesi dell’Ue sono in grado di sostenere e non perdere i propri fronti interni? Sono pronti ad un inverno duro e a nuove probabili recessioni? Dal Consiglio europeo sono uscite alcune risposte a queste domande, riassumibili in una dichiarazione di forza e tre priorità. Vediamole nel dettaglio.

Il sì allo status ufficiale di candidato per Kyiv ha valore giuridico ma soprattutto politico e simbolico. I capi di Stato e di governo hanno, con il loro via libera, dichiarato che il percorso da Maidan in poi deve essere tutto ricompreso all’interno dell’evoluzione del progetto europeo. È come se avessero certificato che da un punto di vista identitario, l’Ucraina è già Unione Europea. In questi anni lo è diventata sempre di più da un punto di vista economico (l’interscambio commerciale, l’accesso al mercato europeo che ha già prodotto una serie di riforme) ma anche culturale (le migliaia di studenti ucraini nello spazio dell’Ue per studiare). È tempo che il soft power trovi anche una sua istituzionalizzazione. C’è molto lavoro da fare e i tempi non saranno brevi, ma al momento la formalizzazione era indispensabile.

Nel medio periodo è però sulle tre priorità che l’Ue si gioca il futuro. La prima di queste può essere racchiusa nel rilancio della proposta di Comunità Politica Europea da parte dell’inquilino dell’Eliseo. Molti commentatori si sono soffermati sulla freddezza dell’accoglienza. Il punto non riguarda il nome della formula né più di tanto i contorni ancora non definiti. Ancora una volta la questione è politica. La candidatura ucraina arriva sull’onda di una brutale guerra, l’Ue deve però nel complesso ripensare le sue politiche di allargamento e non può limitarsi ad una “pausa di riflessione”. Le proteste formali dei sei balcanici (Albania, Serbia, Macedonia del Nord, Montenegro, Bosnia e Kosovo, con i primi quattro candidati ufficiali) non possono restare inevase. La priorità è mantenere intatta la forza del soft power europeo, dell’Ue come magnete, affinché l’area dei Balcani in particolare non scivoli, come sta accadendo, nell’orbita russa, in quella cinese e in quella turca.

La seconda priorità riguarda l’energia. La formula dell’Ue geopolitica, come mostrato dalla guerra in Ucraina, resta una boutade di fronte alla pesante dipendenza energetica. L’annuncio che a luglio non si svolgerà alcun vertice straordinario europeo sul tema è stato derubricato come un passo falso per Mario Draghi e la sua proposta di price cap al costo del gas russo. Però l’annuncio che la Commissione dovrà produrre un documento a partire dal quale i Paesi membri apriranno il dibattito interno è l’implicita ammissione che l’unica proposta sul terreno è proprio il tetto al prezzo del gas di importazione russa proveniente da Palazzo Chigi. E mentre si prepara lo studio, i Paesi dell’Ue stanno diversificando i loro approvvigionamenti. Quello di Draghi è un lavoro ai fianchi. Al momento appare la sola strada percorribile. Sicuramente non la più semplice, ma nel medio-lungo periodo quella potenzialmente più efficace. Come ricordato in apertura fondamentale è la resilienza.

La terza priorità è strettamente connessa a questa logica di medio-lungo periodo: serve un nuovo recovery fund. Non è importante al momento il nome, né lo sono i dettagli tecnici. Ad essere importanti sono la volontà e la necessità politiche. E l’impressione è che l’asse trainante sia franco-italiano. Dopo la storica svolta del maggio 2020, nell’estate di due anni dopo, è sempre più indispensabile un nuovo sforzo comune per affrontare le nubi all’orizzonte. Una nuova pesante recessione potrebbe essere il colpo di grazia per le fragili democrazie europee già provate dalla pandemia globale.

L’asse Draghi-Macron dovrebbe riuscire a smuovere il “pallido Scholz”, sempre impegnato in annunci grandiosi, rispettati poi per meno di un terzo. La patologica dipendenza tedesca dal gas russo sta rendendo sempre più fragile il Cancelliere e se dovesse andare lui a Canossa, anche Lagarde finirebbe per allinearsi e con la Bce seguirebbero a ruota falchi e frugali di ogni sorta. Al più tardi ad inizio autunno servirà qualcosa di più di un’idea. Tra le inevitabili carenze di questa analisi una appare più evidente. E la difesa europea? Colpevolmente dimenticata? No, affatto. Volutamente dimenticata. E questo perché tra il 28 e il 30 giugno dovrebbe arrivare l’insperata quanto provvidenziale pietra tombale sull’annosa quanto sterile litania della “difesa comune europea”.

Passerà tutto da Madrid e dal vertice dei 30 Paesi Nato che dovrebbe segnare una trasformazione epocale dell’alleanza atlantica. Per il dossier allargamento a Finlandia e Svezia, perché vi parteciperanno anche Australia, Corea del Sud, Giappone e Nuova Zelanda come partner e perché dovrebbe “cambiare radicalmente la postura Nato”. Se come atteso la Nato tornerà a centrare la sua strategia sul Vecchio Continente e al suo interno il nucleo dei Paesi europei (Parigi, Roma, Londra e Berlino) deciderà di tornare ad investire sul comparto difesa, sarà possibile chiudere una volta per tutte lo sterile ed inefficace dossier della difesa europea, per aprire invece la stagione di una nuova Nato sorretta da un reale doppio pilastro, atlantico ed europeo.

Parlare di “Ue geopolitica” è una bella formula. Riempire tale formula di significato comporta una serie di complicati passaggi politici. Anche un vertice storico, quanto interlocutorio, fa parte di questi.


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