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MENTRE in Italia il dibattito e l’attenzione politica sono totalmente orientati alla crisi di governo, il mondo cammina velocemente; si muovono, in particolare, quasi tutti i protagonisti in grado di influenzare il nuovo ordine mondiale. Il presidente americano Biden ha in corso una missione particolarmente delicata tra Israele e Arabia Saudita; Russia, Turchia e Iran si troveranno la settimana prossima a Teheran per discutere di sicurezza e armi; a Istanbul, sono in corso riunioni febbrili volte ad affermare un accordo sulle esportazioni di grano.

Sono tutti segnali che evidenziano, da un lato, la necessità di riannodare alleanze perdute: lo spazio lasciato vuoto da Trump in medio-oriente è stato infatti molto prontamente occupato da altri e questa situazione, congiuntamente alla crisi energetica, ha indotto l’inquilino della Casa Bianca a valutare l’opzione di ri-aprire il dialogo con Riad. Dall’altro lato, ci si rende forse conto che il mancato accordo sulle forniture di grano in partenza dai porti ucraini rischia di generare una escalation del conflitto in Africa difficilmente gestibile.

A fronte di questo attivismo a livello di diplomazia internazionale, spicca il ridotto attivismo di Pechino. Essendo infatti chiaro a tutti che il nuovo ordine mondiale è quantomeno bipolare e che la Cina avrà un ruolo sempre più rilevante nel determinare i futuri assetti geopolitici del Pianeta, ci si aspetterebbe un “ruolo in commedia” diverso del Partito Comunista cinese: maggiormente proattivo, quantomeno per contrastare l’indubbio dinamismo degli USA. Nei fatti, invece, la Cina ha (momentaneamente) rinunciato al ruolo di king maker e sembra giocare una partita quasi difensiva: a tutela dei propri interessi su Taiwan, nel Mar Cinese meridionale e, più in generale, nell’Indo Pacifico.

Come possiamo spiegare questo atteggiamento? Vi sono, a mio avviso, almeno tre motivazioni. In primo luogo, vi è un tema economico interno; la Cina ha assolutamente bisogno di rilanciare la propria economia che sta attraversando una fase di indubbia crisi – anche una crescita di 2-3 punti percentuali rappresenta un problema per il gigante asiatico –; gli stessi dati della bilancia commerciale pubblicati ieri, che evidenziano una sua crescita di oltre 100 miliardi di dollari, sono paradossalmente l’esplicitazione di un disequilibrio sempre più marcato: il sistema si regge sulle esportazioni mentre la domanda interna, al netto del fabbisogno di energia, non accenna a decollare come invece necessario nella prospettiva di una ulteriore evoluzione del percorso di sviluppo dell’ex Impero di Centro.

Vi sono in secondo luogo ragioni di natura storico-culturale: faccio riferimento al grande pragmatismo cinese, ispirato dal Maestro Sun Tzu, secondo cui “Il meglio del meglio non è vincere cento battaglie su cento bensì sottomettere il nemico senza combattere”. In questa prospettiva, l’ideale cinese di confronto con i Paesi terzi è rappresentato dal sottile e paziente accumulo di vantaggi in senso relativo; rispetto ad altre culture, la Cina esprime quindi una dinamica di azione più lenta, naturalmente meno improntata al confronto diretto.

Occorre infine considerare l’effetto novità; rispetto alla proiezione storica la Cina si trova infatti, forse per la prima volta, ad essere fortemente interconnessa con il resto del mondo e a giocare un ruolo da assoluta protagonista rispetto al complesso delle dinamiche internazionali. Questa novità, unita alla propensione culturale di Pechino, richiedono un “tempo di rodaggio”; da qui la parziale inerzia di Pechino rispetto ad altri Paesi.

Che cosa aspettarsi per Il futuro? Sicuramente Pechino cambierà atteggiamento; dobbiamo infatti considerare che la Cina si è sempre vista come un Paese predestinato ad avere un ruolo speciale nel mondo (al pari degli USA); in questo senso, prima o poi uscirà allo scoperto con prese di posizione meno generiche – faccio riferimento all’amicizia senza confini dichiarata con la Russia –: orientate a qualificare in modo chiaro gli oggetti del contendere con il mondo occidentale e gli spazi di collaborazione.

Esprimo un auspicio: che il livello di interconnessione raggiunto sul fronte economico con il resto del mondo e la concomitante difficoltà sul fronte economico che Pechino sta vivendo, inducano i vertici del Partito a puntare su un approccio dialogico nei confronti dell’Occidente da cui una parte significativa dell’economia di Pechino ancora dipende. Se così non fosse, temo che potremmo arrivare ad un punto in cui riterremo la Guerra in Ucraina come un episodio di piccola portata.


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