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Le foto pubblicate da Medvedev di Johnson e Draghi con accanto il punto interrogativo: chi sarà il prossimo premier che "salterà"?

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A FESTEGGIARE le dimissioni (‘’in sonno’’ fino a mercoledì) del governo Draghi non sono stati soltanto i cinghiali, i gabbiani e i topi, preoccupati di non potersi procurare il cibo a buon mercato, qualora il Comune di Roma riuscisse a costruire un termovalorizzatore.

Probabilmente anche le associazioni più intransigenti dei tassinari (quelle più responsabili hanno sottoscritto accordi di convivenza con Uber) hanno sperato che, saltando anticipatamente la legislatura, non venisse approvato il ddl sulla concorrenza recante il contestato articolo 10.

SALONI DEL CREMLINO IN FESTA

Ma i toni più festosi sono risuonati nei saloni del Cremlino. Il primo ad esultare sui social è stato Dmitrij Medvedev, ex colomba divenuto implacabile falco del regime, che ha postato una foto del recente vertice dei leader del G7 con due vistose croci di colore rosso sulle effigi di Boris Johnson e di Mario Draghi, corredate da un punto di domanda maligna su chi sarà il prossimo (con la speranza che si tratti di Joe Biden, sconfitto alle elezioni di medio-termine).

Poi ieri ha preso una posizione ufficiale lo stesso Cremlino, augurandosi un superamento della crisi in Italia in grado di ripristinare buoni rapporti con la Federazione russa. D’altra parte, chi ha potuto seguire ieri mattina la rassegna della stampa internazionale si è accorto che sia i principali quotidiani europei che quelli americani hanno dato un gran rilievo al caso Italia.

L’agenzia Ansa ha riportato ampi brani di un articolo del New York Times che rappresentano adeguatamente le preoccupazioni presenti in tutte le Cancellerie del mondo occidentale. «Mario Draghi, da quando è entrato in carica come presidente del Consiglio all’inizio del 2021 – ha scritto il New York Times – ha guidato il Paese fuori dai giorni peggiori della pandemia di Covid e ha inserito nel governo tante persone altamente qualificate ed esperti che hanno scosso l’Italia dal suo malessere politico ed economico».

NYT: «DRAGHI UN TITANO»

Il quotidiano della Grande Mela definisce il premier un «titano d’Europa, spesso chiamato Super Mario per aver salvato l’euro da presidente della Banca centrale europea, ha immediatamente rafforzato la posizione internazionale dell’Italia e la fiducia degli investitori».

«La promessa della sua mano ferma al volante – prosegue il Nyt – ha aiutato l’Italia a ricevere più di 200 miliardi di euro dall’Europa, una somma che ha dato all’Italia le migliori possibilità di modernizzazione degli ultimi decenni. Draghi ha portato una crescita moderata in Italia, ha apportato riforme al suo sistema giudiziario e a quello fiscale, ha snellito la burocrazia e ha trovato diverse fonti di energia lontano dalla Russia, comprese le rinnovabili».

Durante il suo governo, aggiunge l’autorevole quotidiano, Draghi «ha reso fuori moda il populismo e la competenza un fattore da ammirare, e ha riposizionato l’Italia come forza affidabile per i valori democratici in Europa».

Poi, sempre secondo il quotidiano americano, «forse la cosa più cruciale fatta da Draghi è stata spingere l’Italia, che ha spesso mantenuto una relazione stretta e ambigua con la Russia, nel mainstream europeo sulle questioni del sostegno all’Ucraina e delle sanzioni contro la Russia».

Infine il Nyt ricorda che «l’Italia è stata la prima grande nazione occidentale a sostenere pubblicamente l’eventuale adesione dell’Ucraina all’Unione europea».

L’INCOGNITA “GIUSEPPI”

Ma il commento non si limita a parlare del passato prossimo; il Nyt ipotizza anche un futuro altrettanto prossimo, prevedendo che a questo punto che un’uscita di Draghi dal governo «aprirà le porte a forze che sono molto più solidali con Putin».

Che dire? C’era bisogno di varcare l’Oceano per leggere un’analisi di quanto sta succedendo in Italia? In queste ultime ore più o meno tutti gli osservatori hanno descritto la mossa di “Giuseppi’’ come un’avventura, una sorta di suicidio assistito, incomprensibile e controproducente per la stessa grama prospettiva di ciò che resta del M5S. Di Conte si è detto di tutto, fino a trattarlo come un poveretto che non capisce ciò che fa e si lascia trascinare dai sentimenti rancorosi dei primi “terrapiattisti’’ del movimento, i quali – l’applauso al Senato lo confermerebbe – si sentono finalmente liberi di tornare alle barricate contro il sistema.

Polonio, il cortigiano della reggia di Elsinore, invitava sempre a cercare una logica nella follia. Giuseppe Conte è pur sempre un personaggio che, provenendo dal nulla, è riuscito a diventare presidente del Consiglio in ben due governi sostenuti da maggioranze diverse. È stato in grado di accreditarsi a livello internazionale in breve tempo come non era mai riuscito a Matteo Renzi.

Dopo la caduta del suo secondo governo, il Pd di Nicola Zingaretti tentò in ogni modo di trovare una maggioranza – anche raccogliticcia – che gli consentisse di restare in sella, come possibile federatore di uno schieramento progressista. È stato il principale alleato di Enrico Letta nella costruzione del cosiddetto “campo largo” Nei giorni scorsi, quando ormai erano evidenti le intenzioni del M5S al Senato, Pierluigi Bersani ha sostenuto che Conte era stato disarcionato da una congiura di palazzo e che errori e limiti da parte dei grillini c’erano stati, ma che loro «hanno percepito ostilità o disprezzo ovunque si voltassero. Esiste un concetto che si chiama dignità: non è la fase in cui si sta attaccati alla sedia, ma la fase in cui c’è da difendere la dignità».

LE CHANCE DI CONTE

Le cronache, poi, hanno raccontato di un diverbio nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri tra Andrea Orlando e Roberto Cingolani, da cui si potrebbe supporre che la sinistra del Pd sia accusata di aver lavorato per Conte. Col passare delle ore, però, alcuni passaggi che sembravano incomprensibili, si rivelano meditati.

Gli apprezzamenti del Cremlino non vi sarebbero mai stati se quel regime non riconoscesse a Conte di avere delle chance. Se proviamo a mettere insieme i pezzi del puzzle non possiamo non utilizzare ciò che ha dichiarato lo scorso 1° luglio Michele Santoro in una intervista a Il Foglio.

«La prima cosa da fare sarebbe liberarsi dall’incubo della variante Grillo – ha detto Santoro – Mettersela alle spalle. Chiudere con il grande comico inafferrabile, che a volte emerge dall’ombra per poi reimmergersi a seconda dei suoi sbalzi umorali. Questo periodo va chiuso. Altrimenti non si va avanti. La seconda cosa da fare sarebbe poi quella di uscire da questa coalizione di governo, perché è la condizione necessaria per poter svolgere un ruolo politico importante anche sulla questione della guerra. E intorno alla questione della guerra si può ricostruire un’offerta politica a sinistra. Ma Conte deve dimostrare che ci crede veramente. Non come ha fatto con la risoluzione sull’invio delle armi». Sono esattamente le cose che Conte ha eseguito.

La politica internazionale – dopo la guerra in Ucraina – è tornata a essere divisiva e a condizionare l’azione dei governi. Esistono le condizioni in Italia, nella prospettiva di un progressivo logoramento della quadro geopolitico, per la costruzione di un polo filo putiniano o comunque – come ha scritto il Nyt – per la discesa in campo di «forze che sono molto più solidali con Putin».

Conte sarebbe più credibile se conducesse una campagna elettorale “pacifista’’ e, soprattutto, potrebbe entrare in sintonia con forze potenti che si muovono e si muoveranno sempre più sullo scenario internazionale. Ma questi sono di converso i motivi che indurranno Mario Draghi a bere il calice amaro della permanenza al governo, sia pure in una condizione più logorata che difficile.


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