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Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e Stefano Bonaccini

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PER DIVERSI giorni mi sono arrovellato a cercare i motivi per cui Giorgia Meloni non aveva ancora provveduto a nominare Stefano Bonaccini commissario straordinario per le zone alluvionate dell’Emilia Romagna. L’operazione mi sembrava tanto ovvia – e soprattutto conveniente – per la premier da non capacitarmi dei ritardi, anche perché col passare del tempo sarebbe intervenuto un progressivo logoramento, mentre le forze contrarie avrebbero potuto organizzarsi e mettersi di traverso. Forze contrarie non solo all’interno della maggioranza; quelle più insidiose stavano proprio nelle file dell’opposizione e del Pd. Gli eventi successivi lo hanno reso evidente.

Ma procediamo con ordine. Perché la nomina di Bonaccini aveva, a mio parere, il profilo di una grande mossa politica? Come ho già avuto modo di sostenere – oltre a garantire per tanti motivi sul piano operativo sia l’emergenza che la ricostruzione – l’attribuzione di quell’incarico al presidente del maggiore partito di opposizione, oggettivamente, avversario dell’attuale segreteria, ma ‘’governatore’’ in carica della regione martoriata, sarebbe stato un colpo di grande rilievo istituzione e di incomparabile fiuto politico. Che cosa si sarebbe potuto dire della premier di un governo di destra – sotto perenne osservazione da tutte le cancellerie internazionali, sotto tiro della grande stampa e sotto attacco per le nomine televisive (ma chi vince, vince; o no?) – che sceglie di avere al suo fianco – in una missione difficile, destinata a durare anni – l’esponente più prestigioso dell’opposizione in un territorio dove è raccolto il capitale politico residuo della sinistra? Sarebbe stata un’enorme copertura nei confronti della opposizione, senza la necessità di coinvolgere il Pd a livello nazionale, perché quello vero e reale, con il clou degli amministratori, lo avrebbe portato con sé Bonaccini.

Nel sostenere questa tesi non intendevo effettuare alcun endorsement a favore del governatore della mia regione. Da osservatore della politica non riuscivo a rendermi conto del perché una persona intelligente ed abile come Giorgia Meloni potesse lasciarsi sfuggire un’opportunità così evidente, che stava perdendo smalto e appeal a causa del suo tergiversare, con pretesti che non convincevano nessuno (come la strategia dei due tempi: prima l’emergenza, poi la ricostruzione). La spiegazione più logica portava a ritenere che la presidente incontrasse dei problemi critici nel suo partito e nella coalizione. Ma io mi convincevo sempre di più che con la nomina di un commissario diverso, Stefano Bonaccini ne sarebbe uscito come una personalità vittima di un torto, consumato, ai suoi danni, da Meloni solo per smania di potere. Erano comprensibili le obiezioni di chi sosteneva: ‘’Ma come? Abbiamo vinto le elezioni e lasciamo che a comandare siano gli sconfitti?’’. Mi sentivo di rispondere a queste legittime obiezioni che con una scelta diversa da Bonaccini, la destra avrebbe rinunciato a sconfiggere il Pd (in versione Elly Schlein) per una seconda volta. Infatti un governo che cerca la collaborazione di una parte importante del maggiore partito di opposizione, ne valorizza il ruolo nella società nello stesso momento in cui emargina l’ala movimentista e la sua critica irriducibile confinata nel ghetto di uno sdrucito antifascismo.

Più passa il tempo, più mi convinco, però, di aver sbagliato analisi. Giorgia Meloni potrebbe, ma non vuole nominare commissario Stefano Bonaccini. Lasciando marcire la cosa ha dato modo al Pd di mettersi di traverso. Dopo giorni di silenzio, il gruppo dirigente dem è caduto nella trappola di Meloni. Cominciando a rivendicare la nomina di Bonaccini, il Nazareno riesce solo a bruciarne la candidatura. Perché a questo punto il governatore emiliano non sarebbe più una scelta autonoma del governo, ma la richiesta di una minoranza a cui sono rimasti solo gli occhi per piangere.

A Meloni il Pd va bene com’è oggi. E quando la premier pensa ad Elly Schlein riesce solo a dire: ‘’Dio me l’ha data, guai a chi me la tocca!’’. Ma questo è un grave errore. Perché avere un’opposizione che ripudia una cultura di governo può fare vincere le elezioni, a scapito però di un quadro politico complessivamente squilibrato. Meloni rammenti una considerazione attribuita a Margaret Thatcher. Quando le chiesero quale fosse il più grande successo della sua azione politica, la Lady di ferro rispose così: ‘’Tony Blair e il New Labour’’. A buona intenditrice…


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