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Damiano Tommasi tra la folla dopo la vittoria del ballottaggio a Verona

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SONO troppi coloro che cercano di ricavare dalle elezioni comunali di domenica delle lezioni utili in vista delle politiche del 2023. Una maggiore prudenza sarebbe opportuna. La tornata dei ballottaggi è una competizione con le sue peculiarità, diverse dal voto per il parlamento. Basti pensare all’astensione. La retorica diffusa sulla fughe dalle urne e sulla crisi della partecipazione non tiene conto di alcuni fattori determinanti.

Dopo i risultati del primo turno, infatti, è assai complicato riportare gli elettori al voto. Primo: il voto di preferenza ai candidati consiglieri è già stato dato. Secondo: se lo scarto tra i due contendenti è troppo elevato è probabile che una parte degli elettori dia per scontato il risultato finale e consideri inutile partecipare al ballottaggio. Terzo: a fronte di tutto ciò, non sempre i candidati al ballottaggio hanno argomenti sufficienti per rimobilitare i propri seguaci. Quarto: spesso al livello locale le alternative programmatiche non sono rilevanti al punto di stimolare la necessità di una scelta di campo. Insomma: per molti cittadini poco importa se vince l’uno o l’altro dei contendenti. Quinto: le elezioni amministrative non toccano più di tanto la dimensione identitaria del voto e il senso di appartenenza ad uno schieramento. Così, chi si astiene in questo caso può trovare maggiori incentivi a partecipare alle elezioni politiche, di certo più adatte alla polarizzazione ideologica. Infine, calcolando complessivamente gli ultimi ballottaggi, l’analisi dell’Istituto Cattaneo di Bologna chiarisce che gli scostamenti tra i due poli nazionali sono abbastanza modesti. Con buona pace di chi si illude già di conoscere i vinti e i vincitori delle elezioni del 2023.

L’unica eccezione è Catanzaro, dove il passaggio di campo dal candidato di centrodestra a quello di centrosinistra è consistente: un fenomeno tipico del Sud, dove l’influenza di legami personali, familiari e corporativi è, per tradizione, ben superiore rispetto al Nord.

Queste considerazioni invitano a valutare con cautela anche lo stato delle coalizioni. Il centrodestra ha preso alcune batoste. Basti pensare al caso di Verona, dove i due candidati concorrenti – Federico Sboarina, sostenuto da Lega e Fratelli d’Italia, e Flavio Tosi, sostenuto da Forza Italia – sono riusciti a cannibalizzarsi l’un con l’altro, lasciando campo libero – è il caso di dirlo – al mediano di spinta del centrosinistra Damiano Tommasi. La città scaligera mostra che il centrodestra è spesso assai carente nella selezione di una leadership locale all’altezza del compito. I casi recenti di Milano e di Roma, le due città italiane più importanti, dove furono candidati dei personaggi bizzarri, sono esempi che ancora bruciano.

Nel caso di Verona è stato esiziale un eccesso di sicurezza e di boria. La città di Romeo e Giulietta è una roccaforte del centrodestra, ma questo profondo radicamento unito a una lunga familiarità con il potere hanno oscurato la ragionevolezza delle parti in campo. Che hanno creduto, a torto, di poter contare su un consenso permanente e inscalfibile. Assai più rilevante, sul piano generale, è il fatto che il centrodestra viva una fase di transizione provocata dalla ridefinizione degli equilibri interni. I tre pilastri della coalizione – Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia – attraversano delle fasi molto diverse della loro parabola che creano fibrillazione nell’alleanza. Il Carroccio è sempre meno tollerante nei confronti dei capricci del suo leader. Soprattutto i governatori, legati alla concretezza dell’amministrazione quotidiana, si sentono poco rappresentati da un leader come Matteo Salvini, sempre più goffo e confuso.

L’impatto sul consenso non è ancora rovinoso, ma comincia a farsi sentire: proprio le ultime elezioni amministrative hanno confermato il sorpasso del partito di Giorgia Meloni in diverse città, anche al Nord, e i sondaggi vedono Fratelli d’Italia primo partito italiano. Nel suo piccolo, Forza Italia deve gestire la pesante eredità degli anni d’oro del Berlusconismo, mentre il suo leader è a fine corsa senza che si veda all’orizzonte un successore. Sarebbe un errore, tuttavia, dare per scontato che il centrodestra arrivi alle elezioni del 2023 così sgangherato come è apparso a Verona (o a Catanzaro). Il guanto della sfida tra i leader è stato lanciato, ma la storia del centrodestra ci dice che difficilmente l’unità viene messa in discussione alle politiche e che l’elettorato si rimobilita compatto in vista degli appuntamenti nazionali. Ecco perché il Partito Democratico dovrebbe stare all’erta, proprio mentre gongola per i risultati ottenuti. Certo, ha dei buoni motivi per farlo: i successi di Verona, Monza, Piacenza, Parma, Catanzaro. In alcuni casi, dopo anni che non toccava palla. Spesso al Nord, ribaltando la tradizionale supremazia della Lega.

La cosa più importante è che il voto amministrativo conferma il Pd come il perno necessario del centrosinistra, quale che sia la formula utilizzata: con il M5s o senza, con i partiti liberali o di centro, con le liste civiche di varia genesi. Non si capisce, viceversa, l’insistenza di Enrico Letta e dei suoi più fidati dirigenti sull’ipotesi del “campo largo”. La definizione si deve a Goffredo Bettini, il grande burattinaio del partito romano, e battezza l’alleanza d’acciaio con il M5s di Giuseppe Conte. Peccato che le elezioni comunali consegnino di fatto il campo largo al mondo della fantasia.

A livello locale, infatti, il M5s è sempre stato modesto, ma adesso è proprio evaporato. Come spiega correttamente l’analisi del costituzionalista Carlo Fusaro sul sito di Libertà Eguale, il M5S vanta percentuali ridicole in tutti comuni, salvo che ad Alessandria, Carrara e Catanzaro. Sul piano del successo dell’alleanza, Fusaro fa bene a rammentare che il Pd vince senza il M5S in sei grandi comuni su dodici e che perde col M5s in tre dei cinque comuni in cui era alleato. In pratica, il fantomatico ‘campo largo’ (cioè Pd+M5s) vince solo in due città. L’unica città dove il M5s può considerarsi utile o decisivo è Alessandria. Un po’ pochino per farne una grande strategia nazionale.

La polverizzazione delle Cinquestelle sembra ormai un destino ineluttabile. Nemmeno l’aritmetica, ormai, suggerisce al Pd di legarsi alla caduta libera dei grillini. Allo stesso tempo, i partiti minori di Calenda, Renzi, Di Maio e Della Vedova non sembrano nelle condizioni di trovare una sintesi unitaria. Che fare allora? Finora Letta ha giocato una partita di attesa. Esemplare la vicenda del Quirinale, dove la soluzione finale – la riconferma di Sergio Mattarella – gli è caduta tra le braccia dopo la sfilza di scempiaggini del duo Conte-Salvini. In vista delle politiche del 2023, però, il segretario dem dovrà inventarsi qualcosa di più. Per esempio, una proposta capace di riconquistare la gran massa di astenuti in fuga dalle macerie del populismo grillino.


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