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Alma Shalabayeva, assolta in appello

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COME spesso accade, purtroppo, la giustizia italiana riserva sempre delle sorprese. Non è mai lineare. Perché? Perché accade che chi finisce nelle mani della cosiddetta Giustizia, subisce e poi spesso viene riabilitato, per modo di dire, venendo assolto dopo una condanna di primo grado. Una condanna, che spesso dura molti anni, come nel caso che ha visto protagonisti l’ex questore di Palermo, Renato Cortese, il poliziotto che ha messo le manette ai polsi di uno dei grandi capi di Cosa Nostra, come il corleonese, Bernardo Provenzano. Ed insieme a lui erano stati indagati a condannati altri suoi colleghi, l’ex capo del’ ufficio immigrazione, Maurizio Improta e gli agenti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni e il giudice di pace Stefania Lavore che nel processo di primo grado erano stati condannati a pene tra i 5 d i tre anni.

Accusati di sequestro di persona, di “rapimento di Stato” per la vicenda relativa a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente del Kazakistan Mukhatar Ablyaziv, che fu fermata a Roma e poi espulsa appunto in Kazakistan perché in possesso di un passaporto risultato falso. Bene, quelle accuse, sono risultate infondate e gli imputati, dopo nove anni, sono stati assolti per non avere commesso il fatto. Insomma non ci fu nessun “rapimento di Stato”.

Ma viene spontaneo chiedersi: perché la giustizia italiana indaga, arresta, condanna funzionari ed agenti di polizia che eseguono ordini che vengono dall’alto, cioè dal ministero degli interni (allora retto dall’On Angelino Alfano di Forza Italia) e dalla Procura di Roma allora retta dal procuratore Giuseppe Pignatone. Quei poliziotti e funzionari hanno eseguito degli ordini ed alla fine sono stati loro a pagare. Insomma, la solita storia. Gli “esecutori” vengono processati condannati e poi per fortuna assolti, ed i “mandanti” neanche vengono indagati.

Possiamo immaginare che dei funzionari ed agenti di polizia eseguono una espulsione dall’ Italia verso il Kazakistan come se fosse una loro iniziativa personale? Pensate davvero che un poliziotto, carabiniere, finanziere, guardia forestale, vigili urbani, possano fare una cosa del genere se qualcuno dall’alto non glielo ordina? Ma questa è la giustizia italiana che purtroppo, ogni giorno che passa offre di se una pessima immagine anche se la sentenza di ieri della Corte d’Appello di Perugia ha ridato dignità ed onore all’ex questore di Palermo, all’epoca dei fatti capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese ed agli altri imputati.

Ma chi li ripagherà i danni di questa lunga indagine, durata nove anni, che ha pregiudicato la vita e la carriera di Renato Cortese e degli altri? Nessuno, come sempre accade. Questa squallida vicenda, purtroppo fa il paio con quell’altro processo che è ancora in corso a Caltanissetta, dove sono imputati quattro poliziotti, accusati di avere ordito il clamoroso depistaggio sulla strage di via D’Amelio, dove morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Ma quei poliziotti erano “coordinati” e “comandati” da un paio di magistrati che, purtroppo, come sempre accade, sono rimasti fuori dal processo, come se non avessero nessuna responsabilità sulla gestione del “pentito”, Vincenzo Scarantino le cui false accuse portarono alla condanna all’ergastolo di persone che con quella strage non avevano nulla a che fare e che per fortuna dopo tanti anni sono stati assolti, perché innocenti.

Sono processi che chiedono vendetta. Renato Cortese e gli altri imputati, per esempio, in questi nove anni, hanno dovuto subire in silenzio questa ingiustizia. Un poliziotto Cortese, che era avviato verso una splendida carriera e che sarebbe potuto diventare Capo della Polizia (speriamo che prima o poi accada). Era stato capo della  “catturandi” della squadra mobile di Palermo che ha arrestato dopo 30 anni di latitanza, il capo mafia corleonese, Bernardo Provenzano. Poi fu a capo della squadra mobile di Roma e poi questore di Palermo dovendosi dimettere per l’indagine dell’ affaire Kazakistan. Un calvario che è durato nove anni che si risolto è adesso con l’assoluzione piena. Ma chi gli ripagherà questa ingiustizia subita? Nessuno. 

E poi una considerazione che non c’entra nulla con questi processi che però fa riflettere, perché è un dato di fatto. Prima di Cortese che ha arrestato Bernardo Provenzano, un altro investigatore, un carabiniere, il generale Mario Mori capo del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri che nel 1993 pose fine alla latitanza del capo di Cosa Nostra, Totò Riina, fini anche lui nei guai, indagato processato condannato e poi assolto. Per caso porta sfortuna catturare i grandi capi di Cosa Nostra? Non ci credo ma è accaduto e quindi tanti auguri a quegli investigatori che da anni danno la caccia all’ ultimo dei grandi latitanti di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro.


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