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L’ultima trovata che abbiamo letto a proposito del premier Conte è che avrebbe “il tocco magico”. È attribuita al suo addetto stampa Rocco Casalino, non sappiano se a ragione. Si riferisce al fatto, confermato dalle cronache, di una accoglienza popolare particolarmente calda che il Presidente del Consiglio ha incontrato durante la sua partecipazione al comizio unitario che concludeva la campagna elettorale umbra della maggioranza di governo. Del resto i sondaggi confermano che il suo gradimento è alto, ben al di sopra di quelli delle altre figure chiave della coalizione di governo.

TOCCO MAGICO

Probabilmente parlare di tocco magico è eccessivamente enfatico, ma senza dubbio Giuseppe Conte ha una storia di successo nella sua esperienza alla guida di due esecutivi. Partito come una figura scialba, messa costantemente in ombra dallo strabordare dei suoi due primi vice, Salvini e Di Maio, ha acquisito progressivamente ruolo e capacità di conquistarsi spazi autonomi. Ha cominciato a farlo in maniera significativa nella gestione del declino dell’alleanza gialloverde fino al discorso con cui si è sganciato in maniera risoluta dalla collaborazione col leader leghista durante l’infuocato dibattito al Senato sulla crisi del suo primo governo.
Con quella presa di distanza dove si dirigeva? Questa è la domanda che tutt’ora merita di essere presa in seria considerazione. La risposta che la interpreta come una semplice tardiva operazione di abbandono di una nave che sta per andare a naufragare sugli scogli è semplicistica: la durezza con cui ha rinfacciato a Salvini il ripudio di quel che era stato costretto ad avvallare era troppo aspra per essere dovuta solo a ragioni di tattica politico parlamentare. Del resto si ricorderà che lo stesso leader della Lega aveva notato con un certo stupore di non essersi accorto di essere diventato così insopportabile per il suo premier.
La permanenza alla guida del nuovo governo non era legata a quella presa di posizione, ma, come si ricorderà, alla decisione dei Cinque Stelle di porre la sua candidatura alla successione al vertice del governo come una condizione non negoziabile per la conclusione dell’alleanza col PD. Ed ecco porsi il problema vero: con ciò Conte diveniva una pedina di Di Maio o più in generale di M5S? Se dovessimo valutare la faccenda in termini di tattica parlamentare, dovremmo dire che è stata molto abile la dirigenza del PD, inizialmente perplessa su quella scelta, a staccare il premier dal rapporto col suo primo sponsor facendone invece un partner con cui si è stabilita un’ottima intesa.

INTESA CON ZINGARETTI

La questione però va oltre, perché se è vero che Conte sembra avere una collaborazione solida con la componente che fa capo al partito di Zingaretti, sarebbe azzardato vedervi una sua omologazione, se non una vera e propria inclusione. Il premier sta giocando una partita in proprio, ma in termini diversi da quelli che aveva nella precedente coalizione, quando l’immagine corrente lo descriveva non infondatamente come un amministratore di condominio. Oggi egli tende ad intestarsi la regia dell’operazione che il suo attuale esecutivo sta faticosamente cercando di mettere in piedi, cioè l’avvio di una stabilizzazione della situazione italiana. I condomini, se vogliamo continuare con questa metafora, continuano ad essere abbastanza indisciplinati, ma lui non punta più semplicemente ad evitare rotture degli equilibri fra loro, quanto piuttosto ad esercitare il ruolo del timoniere che guida la barca lungo una rotta pericolosa.
Ci sembra di poter dire che Conte ha capito che in questo momento l’orizzonte vero del gioco politico è quello internazionale, all’interno del quale vanno inquadrati i temi scottanti legati alla nostra uscita dalla stagnazione interna. Del resto è da quel contesto che ha ottenuto forza e valorizzazione durante la sua esperienza con la coalizione gialloverde ed è lì che vuole restare ancorato (persino con qualche ingenuità come nella gestione dei rapporti coll’inviato di Trump). Sa bene che chi punta a toglierselo di mezzo cercherà di metterlo in difficoltà su quel piano, perché quel che sembra profilarsi dopo una eventuale caduta del suo governo non sono tanto le elezioni anticipate (almeno non subito) quanto la chiamata in servizio di un nuovo “tecnico con sensibilità politica” da presentare come più adatto alle difficoltà del momento.

LA POPOLARITÀ BASTA?

Ecco perché la popolarità non è un elemento sufficiente, per quanto importante, della sua nuova fase. Ci vuole un crescente accreditamento verso il sistema complessivo e complesso delle classi dirigenti italiane e internazionali. È questo aspetto che Di Maio e i suoi uomini non riescono a capire. Ciò su cui si interrogano i cosiddetti retroscenisti è se invece chi tira le fila di M5S non lo abbia colto benissimo e dunque si prepari ad offrire a Conte la guida del movimento nella consapevolezza che solo con lui si potrebbe rinverdirne la capacità di raccolta del consenso e mantenerlo veramente al potere.
Ci sembra che la cosa non sia sfuggita né ai suoi alleati (il PD) né ai suoi avversari sempre più feroci nei suoi confronti (Salvini ne ha fatto un bersaglio). La strada per l’acquisizione di una piena centralità politica Conte non l’ha però ancora percorsa fino in fondo. I prossimi mesi saranno molto importanti.


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