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Luigi Di Maio

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È la tarda sera di venerdì, il M5S è riunito su Zoom, e uno dei facilitatori di un Movimento in cerca di identità invia questo whatsApp al cronista: «È un bel confronto. Sì, è vero: ci sono posizioni diverse ma nessuno vuole mettere in discussione la maggioranza. A questo punto il tema è trovare una formula giusta nella risoluzione». In quegli attimi Luigi Di Maio, di fatto il capo politico ombra di un Movimento alla ricerca di identità, batte i pugni: «Il 9 dicembre si vota sulle dichiarazioni del presidente del Consiglio e del governo in aula, non si vota sull’accesso al Mes». E ancora un attimo dopo: «Sarebbe da irresponsabili votare contro il governo e contro il presidente del Consiglio che chiede il mandato di andare in Europa a sbloccare i 209 miliardi».

Insomma si agita lo spettro del ritorno al voto per drammatizzare la seduta parlamentare di mercoledì sulle comunicazione del presidente del Consiglio a pochi giorni dal Consiglio europeo che dovrà dare il via libera alla riforma del fondo Salva Stati. Eppure, nonostante si sventoli il ritorno anticipato alle urne, lo stato di tensione è alle stelle. È vero, dalle parti dei vertici del M5S si è convinti che alla fine la fronda dei 15 del Natale si dovrebbe dimezzare, ridurre al punto da consentire di navigare tranquillamente a Palazzo Madama.

Tuttavia Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, continua a ripetere che mercoledì 9 dicembre «il M5S si comporterà da M5S». Non è dato sapere cosa significhi anche perché nell’ultimo anno e mezzo sono più le capriole che i gesti del Movimento all’insegna della coerenza. Un altro irriducibile è Elio Lannutti: «Se cade il governo? Non mi importa nulla». Altri frondisti sono Bianca Granato, Mattia Crucioli, Fabio Di Micco, Cataldo Minnino, Marco Croatti. Da ora fino a mercoledì gli sherpa di maggioranza cercheranno di ricucire il gruppo e di evitare che l’esecutivo possa rischiare sul Mes. Intanto Vito Crimi prova a spegnere il fuoco amico: «Quello che si voterà mercoledì è una risoluzione sulle comunicazioni di Conte e a fronte delle comunicazioni di Conte presenteremo una risoluzione che sarà condivisa dalla maggioranza e sono convinto che sarà unitaria e porterà a guardare oltre».

Un capitolo a parte merita il centrodestra. Lì il problema si chiama Forza Italia. Il partito di Silvio Berlusconi, che siede saldamente nel Ppe, è tormentato, dilaniato in correnti, diviso fra chi vorrebbe astenersi e fra chi invece desidera restare incollato al fianco di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Eppure il gruppo azzurro del Senato è tendenzialmente salviniano e di conseguenza appare difficile che il Cavaliere possa cedere all’ala responsabile, capitanata da Renato Brunetta e Renata Polverini. Dunque nell’area di centrodestra si lavora a una mediazione che possa tenere insieme l’apertura di Forza Italia alla linea di credito del Mes pandemico (37 miliardi NdR.) e il No alla riforma del fondo Salva Stati.

Ecco perché i bookmakers del palazzo non scommettono sulla caduta del governo. D’altro canto, per dirla con un esponente del governo di rito PD, «cosa vuoi che facciano i Cinque Stelle? Non hanno alternative…».


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