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Li ha menzionati nel suo discorso parlamentare per la fiducia, ma l’aveva fatto anche in altri importanti interventi: parliamo di Draghi e della sua attenzione per i giovani. Non dovrebbe suonare strano in bocca ad un economista, che se non si occupa di futuro ha sbagliato mestiere. Come si può parlare di futuro senza interessarsi di chi il futuro sarà chiamato a gestirlo? Per carità, inneggiare ai giovani può anche essere pura retorica.

Lo fanno in tanti, nella maggior parte dei casi come in una litania che viene ripetuta senza crederci più di tanto. Non costa nulla, però non è questo il caso dell’attuale premier, che pesa le parole ed è abituato a pensare prima di aprire bocca. In una crisi pandemica che si sta letteralmente portando via una generazione anziana senza che questo impensierisca più di tanto una parte almeno di quella più giovane, poco propensa a qualche sacrificio per frenare la diffusione del contagio, un discorso sulle future generazioni è importante.

Cominciamo a dire che se fatto seriamente è un discorso rivoluzionario. Tanto per fare un esempio banale, un tempo si pensava che l’assillo di ogni genitore fosse quello di garantire ai figli un futuro migliore del proprio. Del resto era stato il meccanismo di tutti gli impegni per il cambiamento: noi accettiamo oggi il prezzo che costa garantire alle nuove generazioni un futuro migliore. Ebbene questo che si riteneva un modo normale di ragionare è andato in crisi nel momento in cui si è affrontato il tema della riforma del sistema pensionistico. Chi la proponeva aveva usato il classico schema: guardate che se continuiamo con la “generosità” del sistema attuale, i vostri figli non avranno mai una pensione.

La risposta implicita, ma abbastanza chiara è stata: chi se ne frega, qualcosa i nostri figli si inventeranno, intanto noi ai nostri privilegi non rinunciamo. È un esempio, non sappiamo quanto piccolo o grande, del problema con cui si misura il mondo odierno rispetto al futuro delle giovani generazioni. Ne volete un altro? Quando Draghi e il ministro Bianchi hanno provato a buttare lì che per scolari e studenti colpiti dalla DAD e dalla scuola scassata che gli era toccata in sorte sarebbe stato giusto prevedere un calendario scolastico più lungo i sindacati e larga parte del corpo insegnante hanno risposto pernacchie. Guai a dir loro che tutto sommato era una categoria che aveva continuato ad essere pagata nonostante quel che stava accadendo: avevano fatto il loro minimo sindacale e basta così. È chiaro che in un contesto del genere se Draghi e la sua squadra vorranno andare avanti ad affrontare il problema del disagio giovanile avranno da lavorare molto, ma soprattutto dovranno andare controcorrente. Anche perché la fascia di generazioni che sta essendo travolta dai grandi cambiamenti di questi ultimi decenni è ben più ampia di quella tradizionalmente considerata nella categoria dei “giovani”.

Le mutazioni che hanno interessato il mondo del lavoro nel suo rapporto col sistema sociale sono state radicali e sinora c’è stato più interesse a salvaguardare quelli che per convenzione chiamiamo “i garantiti”, cioè coloro che in quel sistema si erano in sostanza già inseriti prima delle grandi mutazioni, che non quelli che dalle mutazioni sono stati marginalizzati se non travolti. È chiaro che recuperare i problemi che implica una transizione storica, per di più quando si somma con una crisi pandemica, non è un’impresa facile. Tutte le ricette semplicistiche aggravano le questioni piuttosto che risolverle.

Per esempio si fa presto a dire che bisogna promuovere il merito prima di tutto. Giusto, solo che poi per evitare che possa essere fatto nell’unico modo che veramente funziona, cioè consentendo che a valutarlo sia chi seleziona (di cui nessuno si fida), si costruiscono gabbie cervellotiche di “criteri oggettivi” che servono solo a favorire i professionisti delle loro manipolazioni. Chi ha fatto parte di commissioni di selezione nei settori pubblici lo sa benissimo.

Bisogna sapere che in un sistema in equilibrio si deve tenere conto di tutti. Non se ne può più di quelli che ti sbattono in faccia continuamente che basta che i nostri giovani vadano all’estero dove esistono ottime possibilità d’impiego. Non solo perché questo alla fine è un modo per depauperare il capitale umano di un paese, ma anche perché non si può ragionare avendo in mente solo una minoranza di “avventurosi” o particolarmente dotati: il pieno impiego era un tempo l’obiettivo di tutti i riformatori sociali, che sapevano quanto questo fosse complesso.

Draghi e la sua squadra queste cose naturalmente le sanno benissimo, non serve che gliele ricordiamo noi, che invece lo facciamo per invitare l’opinione pubblica a prenderne coscienza in modo da supportare l’azione che il governo vorrà fare. Perché, diciamocelo chiaramente, gli interventi legislativi e programmatici servono fino ad un certo punto se non c’è un sistema sociale disposto a farli diventare una parte della sua vita. Non si fa buona scuola senza insegnanti che la vivano come qualcosa di più che una occupazione per tirare uno stipendio, così come è per la buona sanità, per la buona amministrazione pubblica, per la buona imprenditorialità privata.

Il grande compito che Draghi ha davanti è ridare al paese una responsabilità convinta verso il suo futuro, superando quel tarlo che i sociologi chiamano “l’individualismo di singolarità”, cioè quel meccanismo che chiude ciascuno nel suo ristretto orizzonte dell’egoismo personale. È la “Riforma” che è il fondamento di ogni vero riformismo. Parte per forza di cose dal guardare ai giovani perché se non guarda al futuro le manca l’anima.


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