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La Camera dei deputati

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La legittima soddisfazione di alcuni parlamentari per il passaggio alla Camera della riforma costituzionale che cancella la differenza di età per poter votare al Senato non ha avuto grande eco sui media.

Era di suo una riforma scontata, perché immaginare che riservando il voto per il Senato a persone catalogate a vanvera come più “mature” (in realtà 25 invece che 18 anni) si potesse distinguere il tipo di rappresentanza presente nelle due Camere era semplicemente una cosa senza senso comune.

Che questo invece si debba salutare come uno strumento che eviterà la presenza di due maggioranze diverse fra Camera e Senato ci pare discutibile, perché non crediamo che questo dipenda tanto dalla differenza, certo non piccola (circa 4 milioni di potenziali aventi diritto) fra i due elettorati, quanto dal permanere per il Senato di un computo dei voti su base “regionale” il che consente l’affermarsi di alcuni equilibri diversi.

Piuttosto è da chiedersi a cosa serva avere due Camere con la stessa composizione degli equilibri politici che esaminano (in teoria) due volte la stessa legge o votano una doppia fiducia allo stesso governo. Questa anomalia deriva dall’impossibilità che si realizzò in Costituente per creare un vero sistema bicamerale con la presenza di due canali diversi di estrazione della rappresentanza, ma nonostante settanta anni di dibattito sul tema finora non si è stati capaci di razionalizzarlo.

Adesso arriva la solita proposta tipo taglio del nodo di Gordio: ma, considerato il taglio dei parlamentari passato alla bersagliera per compiacere il grillismo montante, facciamo una sola Camera di 600 membri ed evitiamo la pantomima attuale per cui di fatto una sola Camera esamina e vara i testi delle leggi (per lo più decreti governativi) e l’altra si limita a ratificare perché altrimenti saltano i tempi, il governo pone la questione di fiducia e se non si approva si vara una crisi di governo che nessuno può permettersi.

La toppa non è molto razionale. Il principio che le leggi importanti passino al vaglio di due assemblee che rappresentano due diversi “mondi” del sistema nazionale avrebbe un suo perché. Ovviamente le leggi che per spicciarcela chiameremo di ordinaria amministrazione potrebbero passare all’esame di una sola Camera, decidendo quale in base magari a diverse competenze da assegnare all’una e all’altra.

Questo dubbio sulla necessità in alcuni casi di una doppia lettura sfiora anche coloro che propongono di costituzionalizzare come seconda Camera la Conferenza Stato-Regioni, modificata con modalità da studiare. Anche qui una toppa peggiore del buco.

Come ha dimostrato il trauma della pandemia (ma chi teneva sotto osservazione il problema lo sapeva da prima) quella sede si è trasformata in un organismo che surrettiziamente ha creato uno stato para-federale organizzato in modo confuso.

Infatti una cosa sarebbe prevedere una seconda Camera che raccolga rappresentanti di filiere politiche che si formano a livello locale, ma che rimangono orientate a “rappresentare la nazione”, altra cosa costituzionalizzare una sede in cui si contrappongono un governo nazionale (impropriamente definito “Stato”), che almeno ha la legittimazione di un corrispondente parlamento, e i “governatori” di tante repubblichette che lavorano per difendere i privilegi dei loro cittadini contro quelli di altri cittadini che pure dovrebbero far parte dello stesso Stato.

Non ci sembra purtroppo che ci sia grande consapevolezza di questi delicati temi di riforma costituzionale. I partiti preferiscono parlare di grandi questioni universali e abbastanza astratte senza toccare queste spinose questioni. Non riescono neppure ad affrontare compiutamente quella che sarà inevitabilmente la premessa a qualsiasi seria revisione della nostra organizzazione costituzionale: il varo di una nuova legge elettorale.

Mentre sembra che ormai si siano arresi tutti all’idea che si voterà nel 2023 per non compromettere l’avvio del PNRR, non riprende slancio il confronto per dare al paese delle norme che consentano di evitare la trasformazione delle prossime elezioni in una corrida come accadrebbe salvando l’attuale sistema immerso nel cambiamento indotto dalla stupida riforma grillina (passata con alti proclami che sarebbe stata l’incentivo a rivedere il sistema: non l’abbiamo dimenticato e abbiamo constatato cosa è poi successo). Per inciso: ma Conte, che vuole portarci all’avvenire del 2050, non ha niente da dire sul pasticcio che ha lasciato combinare senza avere espresso, né esprimere ora uno straccio di idea su come recuperarlo?

Qualcuno afferma che non c’è miglior contesto che un “governo di unità nazionale” per varare una riforma costituzionale, ma nella nostra situazione non ci pare sia così. Abbiamo un governo frutto di una emergenza con forze che collaborano senza entusiasmo guardando in continuazione a come si evolverà la situazione non appena l’emergenza sarà conclusa.

Anche se è paradossale, è perché nessuno sa in che modo possa veramente garantirsi le migliori condizioni di vittoria, che non si combina nulla: le riforme elettorali normalmente poggiano su una certa attesa di come potrà essere la conformazione futura dell’elettorato e di conseguenza di come ognuno potrà garantirsi tanto nel caso riesca a vincere, quanto in quello che debba risultare perdente.

Nell’attuale situazione di liquidità politica vale più la logica del provare ad organizzare una lotteria che quella di razionalizzare un sistema: pessima condizione anche per ragionare seriamente su una riforma costituzionale.


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