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Giuseppe Conte, Beppe Grillo e Luigi Di Maio

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Si scioglierà il rebus a Cinque Stelle? Ne dubitiamo, a meno che non lo si riduca ad un conflitto fra Grillo e Conte.

In questo caso probabilmente la soluzione sarà trovata perché nessuno dei due può fare a meno dell’altro, ma questo non significherà che si trovi anche la via per dare una identità ad un nuovo M5S.

Farlo significherebbe snaturare la base di raccolta di gran parte del consenso. È un poco come fu col PCI negli anni ruggenti. Moltissimi sapevano che non si sarebbe fatta nessuna rivoluzione, non avevano nessuna voglia di instaurare in Italia un modello simil-sovietico, ma si continuava a sostenere che il fine del partito era l’instaurazione del socialismo modello marxista-leninista.

Intanto passava il tempo, tutto finiva nel magazzino dei miti che si possono sempre tirar giù dagli scaffali quando si ha nostalgia, e il partito marciava verso una sua forma di socialdemocrazia però offendendosi a morte se qualcuno glielo faceva notare.

Qualcosa di simile succederà ai Cinque Stelle se riescono a superare questa fase senza implodere vittime dei molti personalismi che li attraversano. Grillo non può fare a meno di Conte se non vuole ridursi a capo di un partitello di pasdaran, cosa che semplicemente lo sbatterebbe fuori dal circuito del potere.

A quello ci ha fatto la bocca ed è troppo vecchio, nonché i tempi sono troppo cambiati perché possa pensare di rimettere in scena con successo le liturgie del “Vaffa”. Vuole però il riconoscimento nello statuto di uno “spazio scenico” che possa attivare ogni volta gli venga voglia di tornare sotto i riflettori. Glielo troveranno, purché non pretenda di occupare la scena ora che si deve rappresentare l’approdo al “nuovo” MoVimento.

Conte sa bene che è lui l’anello di congiunzione fra la forza elettorale post-grillina, ancora consistente a stare ai sondaggi, e tutta una classe dirigente che vuole rompere coi tradizionali canali di controllo del potere accelerando le proprie carriere. Basta guardare bene a quel che è successo nei due governi diretti dall’avvocato pugliese per capire questa realtà.

Draghi è stato un inciampo imprevisto su questa strada, ma possono sperare che sia una parentesi, dopo la quale si tornerà al sistema della divisione delle risorse fra i partiti e allora sarà nel centrosinistra che si offriranno le occasioni migliori: perché ci si deve misurare con un solo grande partito che è il PD, il quale però pur di non perdere l’opportunità di competere per il governo si presume sia disposto a concedere molto.

Se i Cinque stelle si mettono su questa strada affrontano però il rischio di diventare semplicemente il partito di Conte. Questo è ciò che in maniera interessata si continua a far circolare per mettere alla prova i nervi dei pentastellati. In realtà non è così semplice, perché l’ex premier non ha radicamento territoriale, né dispone del tempo per costruire quel consenso diffuso che serve a creare un partito di qualche rilevanza.

Il precedente del fallimento di Monti in una impresa del genere è illuminante: non si inventa un partito che funziona contando sul prestigio di un uomo solo e sul raggrupparsi intorno a lui di un po’ di politici in cerca di futuro.

I Cinque Stelle hanno impiegato una decina d’anni per arrivare al loro travolgente successo del 2018, che poi non si è neppure rivelato in grado di reggere la navigazione nella politica divenuta complicata. Conte sa bene tutto questo e lo sanno anche quegli ambienti che puntano su di lui, per cui non ha alcun interesse a rompere con Grillo perdendo una “agibilità politica” che in questo momento è preziosa. Infatti se riesce a fare il leader di M5S può pesare nella fase di avvio del PNRR, fase che si pensa durerà probabilmente sino a fine legislatura nel 2023, altrimenti potrebbe fare al massimo la copia di Renzi o di Calenda, ammesso che un po’ di parlamentari pentastellati fra cui qualche leader siano disposti a seguirlo in una avventura che intanto li metterebbe fuori dai giochi. Tutto questo ci sembra improbabile.

Tuttavia Conte non potrà rimodellarsi M5S secondo le sue strategie e non solo perché non vanno bene a Grillo. Anche una quota certo non piccola dei parlamentari inquadrati in quel partito ha un interesse relativo a mettersi supinamente al servizio dell’ex premier, che non può garantire ricandidature perché il vincolo dei due mandati resterà, salvo eccezioni che non interessano le truppe di linea, ma soprattutto perché i posti disponibili si ridurranno per via dei tagli dei seggi e della contrazione dei consensi. E Conte a chi sarà tagliato fuori non è in grado di offrire uscite di sicurezza.

Per queste ragioni l’ex premier non meno del fondatore è interessato a tenere in vita la sacra rappresentazione del grillismo, perché in essa può assorbire le frustrazioni di chi non avrà ruoli (si sa che essere contro corrente ha quei costi…) e con essa può mantenere circa gli obiettivi immediato del movimento quella nebulosità che gli consente di giocare più parti in una politica in fase di ricomposizione (e magari anche di spendersi in qualche condizionamento per non dire in qualche ricatto).

Non sarà dunque più significativa di tanto la puntata di ieri, forse con una coda oggi. Bisognerà attendere le elezioni amministrative di ottobre per vedere che spazi rimarranno a Grillo, quali a Conte e soprattutto se si ricompatterà “il partito a Cinque Stelle”. Sì, perché quel soggetto esiste, anche se si pensa che sia solo un serbatoio per far brillare il futuro di due leader.


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