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Matteo Salvini

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È UN dato stabile da mesi, radicato nella percezione degli italiani: la fiducia in Mario Draghi si mantiene superiore al 60 per cento (67 per Piepoli; 62 per “Lab210”) e stacca abbondantemente quella attribuita al suo stesso governo. D’altronde non ci sono solo le beghe tra i leader di partito impegnati nella campagna elettorale, a far stagliare la figura del premier. Sono gli stessi “contenziosi” fra i dicasteri a indicare una medesima fragilità politica che finisce di continuo a rimandare ogni palla a Palazzo Chigi: il che può essere un bene dal punto di vista pratico, ma diventa anche il “vulnus” di un treno che non viaggia in autonomia. Dato che rafforzerebbe, come sostiene Giorgetti, l’idea che con Draghi eletto al Quirinale a febbraio anticipare le elezioni sarebbe ineluttabile.

E’ un ragionamento politico, ma anche il tentativo da parte del numero due leghista di fugare qualcuno dei dubbi e dei sospetti che ormai il suo “capo”, Matteo Salvini, nutre sui compagni di Carroccio più in vista: in particolare, sulla possibilità di un governo che porti a scadenza la legislatura anche senza Draghi a Palazzo Chigi.

Che il premier resti indispensabile, purtroppo lo provano i nodi che arrivano al pettine nei prossimi giorni: dalla ripresa scolastica all’obbligo di green pass e vaccini; dalla riforma degli ammortizzatori sociali alle delocalizzazioni; dalla riforma delle pensioni alle modifiche al Reddito di cittadinanza: non c’è questione che non attenda la mediazione del premier. In settimana dovrebbe esserci anche il vertice a tre con Salvini e la ministra Lamorgese, ancora bersaglio delle ritorsioni leghiste dopo la cacciata di Durigon.

Smaltita la parte più cocente dello smacco, la propaganda salviniana ieri è tornata a concentrarsi sul ministro dell’Interno: “Letta dice che la Lamorgese non si tocca, intanto altri 400 clandestini sbarcano a Lampedusa. Pagano Letta e Lamorgese?”. Un modo per tenere viva partita della “ricompensa”, che non riguarda solo il nome del leghista che rimpiazzerà Durigon al Mef, ma anche un eventuale rilancio con la richiesta di una delega per la gestione dei migranti per il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, che già detiene quella per l’ordine pubblico. Per ora non sembra che la pretesa leghista possa avere successo, e di sicuro non attraverso queste modalità.

Eppure il leader leghista è chiaramente in difficoltà e cerca strategie di rilancio. Così mentre Draghi lavora soprattutto sulla vicenda Afghanistan e su un G20 che si preannuncia epocale – manca ancora il sì della Cina e l’ok di tutti a includere al tavolo anche Pakistan e Iran -, Salvini guarda con sospetto all’interno e all’esterno del Carroccio, dove prosegue alacremente l’attività di “disturbo” della contender Giorgia Meloni, che ieri s’è intrattenuta con l’ungherese Orbàn, un tempo “interlocutore privilegiato” del leghista. Ma i dubbi salviniani riguardano soprattutto l’ineluttabile operazione di federazione con Forza Italia, in quanto essa finirebbe con dare ulteriore sponda a quel fronte interno che il leader vede sempre più allargarsi, anche perché in diretta corrispondenza con il blocco sociale e imprenditoriale che da sempre anima la Lega.

L’asse Giorgetti-Zaia ormai s’identifica con il governo Draghi e la sua concretezza che tanto piace agli italiani, mentre guarda con sufficienza all’inutile propaganda sui migranti. Una dinamica dalla quale dipenderà anche la scelta del sostituto di Durigon: Rixi è di sicuro vicino al segretario, ma l’ex sindaco padovano Bitonci era legato a filo doppio con il suo ex collega di Verona, Flavio Tosi, da poco “riabilitato” da Salvini, che mira a farne un elemento di “contenimento” dell’ascesa di Zaia.  


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