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Giorgia Meloni, secondo i sondaggi sarebbe in testa

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LE SINGOLARI uscite di Giuseppe Conte, Salvini che vuol farsi passare per una specie di vice-papa, sono già da soli segnali di una crisi di quella maggioranza di semi-unità nazionale che a suo tempo Mattarella era riuscito a far nascere per far fronte all’emergenza pandemica. Non che quella coalizione sia mai stata veramente coesa: era una soluzione accettata per disperazione, con il retropensiero che Draghi avrebbe sistemato un quadro che perdeva pezzi da tutte le parti e poi si sarebbe presto tornati alla “normalità”, cioè al grande scontro fra centrodestra e centrosinistra e si sarebbe visto chi risultava vincitore.

A scompigliare le carte è arrivata la crisi dovuta all’aggressione della Russia contro l’Ucraina. Proprio quando da diversi versanti, dentro e a fianco della colazione governativa, si stava lavorando per “ridimensionare” Draghi, anche a fronte dei vari pasticci combinati nella battaglia per la successione di Mattarella, la guerra ha scompigliato il quadro. Per la verità si è continuato a lavorare contro l’attuale premier, con l’argomento, fra lo stupido e il velenoso, secondo cui non veniva tenuto in gran conto nel gioco diplomatico, tanto che non lo invitavano a qualche summit. Poi però si è visto abbastanza presto sia che l’argomento non teneva, sia che la fiducia dell’opinione pubblica verso l’inquilino di palazzo Chigi si manteneva non solo alta, ma cresceva.

Questo scompiglia il quadro politico. Da un lato il centrodestra rimane alto nelle intenzioni di voto rilevate dai sondaggi (circa sul 47%), ma con tre incognite. La prima è che rimane qualcosa come il 30-40% di intervistati che non si pronuncia e dunque non si sa se si asterranno (ai partiti importerebbe poco, gli astenuti non contano) o se all’ultimo momento faranno delle scelte che si discostano dai trend rilevati dai sondaggi. La seconda incognita è che l’alleanza vede costantemente il crescere di FdI e questo significa avere la Meloni come futuro candidato premier. La giovane leader si muove bene: ha sostenuto la politica “atlantica” del governo attuale ed evita sceneggiate in continuazione, facendo dimenticare che nella lotta alla pandemia non è stata proprio un esempio di equilibrio. La terza incognita è l’incerta tenuta di quel magma che è l’ex partito berlusconiano e le sue frange: non una variabile da poco.

Sul fronte opposto sono messi anche peggio. Letta è riuscito a far riguadagnare centralità al PD, almeno presso l’opinione pubblica (è praticamente in testa a pari con FdI). Al suo interno non mancano fibrillazioni, ma queste sarebbero anche dominabili non fosse che la vecchia scempiaggine del “campo largo” lo inchioda ad una prospettiva poco gestibile. Rinviando per un attimo il tema cruciale dei Cinque Stelle, c’è da chiedersi se in una situazione di fortissime tensioni il PD sia in grado di tenere sotto controllo il variegato mondo dell’estrema sinistra che non è che abbia a disposizione una cultura più solida dei cascami del solito post-sessantottismo coi suoi tabù storici. Le vaghe fughe in avanti nel cosiddetto “sociale” non sono molto praticabili visto il quadro economico che sembra prospettarsi davanti.

Ma veniamo ai Cinque Stelle. Dimenticate le sbandate di Zingaretti su Conte punto di riferimento dei progressisti e le esternazioni mediatiche di Bettini, è venuta alla luce la scarsa consistenza del personaggio che sta a capo di M5S senza che sembri esserci una possibilità di leadership alternative. Di Maio è sempre accreditato di largo seguito, ma finora non se ne è avuta prova diretta, altri personaggi in grado di riorganizzare truppe che sembrano piuttosto allo sbaraglio non è che se ne vedano. Conte appare al limite dell’incredibile quando dichiara a favor di telecamere che si deve tenere conto del partito che ha in parlamento la maggioranza relativa, come se non sapesse quale è la reale presa di quel partito anche a stare ai più ottimistici per lui dei sondaggi. Ci si aggiunga che invocare la mancanza nel programma di governo di un accordo sulle spese militare è ridicolo, visto che siamo di fronte solo all’accelerazione di impegni da lui sottoscritti quando era premier e che questa accelerazione è dovuta ad un evento che nessuno poteva immaginare all’epoca delle trattative per il varo dell’esecutivo guidato da Mario Draghi.

In questa situazione la disponibilità dei partiti a dotare il premier di quella autorevolezza necessaria per evitare che l’Italia venga stritolata dall’aggravarsi della situazione internazionale appare piuttosto ridimensionata. Non ci illudiamo di essere di fronte al solito giochetto che negli stereotipi che ci affibbiano a livello internazionale si definisce “crisi all’italiana”: tutti fanno la voce grossa, ciascuno cercando di imbonirsi una fetta di opinione pubblica, poi si troverà il pateracchio per fingere che tutti hanno ottenuto un riconoscimento e si andrà avanti come è inevitabile fare. In momenti di emergenza non sono operazioni che si possono portare a termine in questo modo. Brucerebbero la nostra credibilità interna e internazionale, Draghi come punto di riferimento, quelle componenti del sistema italiano che hanno dignità e competenza per affrontare il difficile tornante che abbiamo davanti. Sarebbe un disastro e proprio non possiamo permettercelo.

(da Mente Politica)


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