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Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi durante una consultazione per il Governo

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Di certezze, in queste poche ore che ormai ci separano dalla soluzione della crisi aperta con le dimissioni – respinte dal capo dello Stato – di Mario Draghi, ce ne sono poche. Nessuno sa cosa dirà domani il premier quando si presenterà alle camere per “comunicazioni fiduciarie”, vale a dire con intervento, discussione e voto nominale su risoluzioni di fiducia.

La conditio sine qua non rimane la stessa: l’ex numero uno della Bce per rimanere alla guida di un esecutivo di larghissime intese pretende che queste siano appunto tali e comprendano anche il M5s. Resta da capire a questo punto cosa si debba intendere per “Movimento 5 stelle”, visto che Luigi Di Maio, già capo politico dei pentastellati, ora leader degli scissionisti di Insieme per il futuro, non manca da giorni di sottolineare come il suo ex partito non sia più di fatto “il M5s, ma il partito di Conte”: un ulteriore travaso di parlamentari verso la formazione del ministro degli Esteri potrebbe togliere Draghi (ed Enrico Letta) dall’imbarazzo, visto che a non votare la fiducia sarebbero a quel punto davvero uno sparuto numero di irriducibili che, al grido “li sfonnamo”, non rappresenterebbero un ostacolo per nessuno.

Anche perché un secco “no” alla possibilità di andare avanti con i pentastellati arriva forte e chiaro anche dal centrodestra di governo. In una nota congiunta, diramata domenica dopo un vis à vis in Sardegna, Matteo Salvini  e  Silvio Berlusconi – entrambi ieri nella Capitale per seguire gli sviluppi della crisi e confrontarsi con i rispettivi gruppi parlamentari – hanno confermato come “sia da escludere la possibilità di governare ulteriormente con i 5 stelle per la loro incompetenza e la loro inaffidabilità”, facendo espressamente riferimento alle dichiarazioni di Conte (che si aspetta “risposte concrete” dal premier in merito ai 9 punti sottoposti alla sua attenzione), lette dal presidente di FI e dal segretario della Lega come “ultimatum e minacce”.

La nota dei due leader continua però poi in maniera ambigua poiché se da un lato “con il consueto senso di responsabilità hanno concordato di attendere l’evoluzione della situazione politica”, dall’altro si dicono però “pronti comunque a sottoporsi anche a brevissima scadenza al giudizio dei cittadini”. Dunque elezioni “ni”; né un no categorico né un sì convinto. Come invece lo è quello dell’alleata di coalizione Giorgia Meloni – che le elezioni le chiede dalla caduta del primo governo Conte, quindi nessuna novità – che anche ieri ha ribadito con forza la sua posizione: “Appelli, ripensamenti, suppliche e giravolte: per paura di esser sconfitta, la sinistra è disposta a tutto pur di scongiurare il ritorno al voto. Possono fuggire quanto vogliono, arriverà presto il giorno in cui dovranno fare i conti col giudizio degli italiani”, il messaggio tranchant che la leader di FdI ha affidato ai social.

Ma netta, ieri è stata anche la presa di un big leghista, il vicesegretario del Carroccio Lorenzo Fontana che non solo ha definito un “indegno teatrino” quello messo in scena dai 5Stelle e dal Pd che ha fatto venir meno “il patto di fiducia” su cui era nato questo governo ma anche affermato che “il Parlamento è ormai completamente delegittimato”.

Fontana ha argomentato la sua posizione spiegando che “basarsi su transfughi e maggioranze ballerine non garantisce stabilità ed è in contrasto con quanto desiderato esplicitamente dal premier che non vuole cambiare in corsa le forze che lo sostengono”, a questo punto non resta che dare agli italiani “la possibilità di scegliere un nuovo Parlamento che finalmente, e per cinque anni, si occupi di lavoro, sicurezza e salute degli Italiani, altro che droga libera, Ius Soli o Ddl Zan”.

Insomma, i toni non lasciano spazio a dubbi: il suo è un sì netto alle elezioni immediate. Ancora una volta dunque, Salvini, è stretto fra l’ala governista – che comprende anche i governatori leghisti- ed una più intransigente che non ha nessuna intenzione di rimanere col cerino in mano e lasciarsi stritolare da una Meloni più ferma e decisa che mai nelle sue posizioni.


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