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Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini

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SCOMPARE il centrodestra di governo per far spazio a un ridondante miscuglio di populismo e sovranismo. Il centrosinistra cerca di ridefinirsi attorno al buco nero delle stelle cadenti. Sembra esserci, ora, solo il campo di battaglia elettorale tra schieramenti spuri.

Ma davvero, senza Draghi, l’area della responsabilità è diventata impraticabile? La motivazione data dal presidente della Repubblica alla scelta di dar seguito dalle dimissioni di Mario Draghi anticipando il ritorno alle urne, mette al riparo la vita democratica dall’esito più nefasto della negazione della fiducia al governo. Che non è mai stata a un governo qualsiasi, ma al governo immaginato non a caso 18 mesi fa da Sergio Mattarella al di fuori delle formule politiche consunte dalla transizione senza riforme tra la Prima e la Seconda Repubblica.

Se pure ce ne fosse stato bisogno, il voto parlamentare – non a caso pervicacemente voluto nella “bomboniera” di palazzo Madama piuttosto che nell’aula più politica di Montecitorio – che ha visto da una parte il Movimento 5 Stelle, con l’astensione, e dall’altra la Lega e  Forza Italia, con l’abbandono degli scranni, rifuggire – l’uno e gli altri – dalla responsabilità di votare l’unica risoluzione che di fatto avrebbe consentito di portare a compimento i residui compiti programmatici del governo, riconsegna la crisi politica alla ragione di fondo dell’originario appello all’unità nazionale.

Draghi avrà anche sbagliato a dire ai senatori di dover rispondere “agli italiani” (per primo rispondeva alla richiesta istituzionale della figura costituzionalmente rappresentativa dell’unità del paese), ma seppure sbagliando potrebbe aver  reso un ultimo servigio al Paese, costringendo le forze politiche a rendere esplicita la rincorsa di particolarismi e le convenienze elettorali che avevano cominciato a logorare l’unità nazionale e funestare gli ultimi mesi di questa legislatura.

Come spiegare altrimenti le speculari stoccate di Draghi alla Lega che insegue i taxisti e ai cinquestelle arroccati sui superbonus? L’autentico paradosso è sembrato emergere successivamente, nella convergenza nel non voto di destini che a parole avrebbero dovuto separarsi (la risoluzione della Lega, poi sottoscritta anche da Forza Italia, chiedeva un nuovo governo senza più i Cinque stelle, i quali si cincillavano ancora con il ritiro della propria delegazione ministeriale), quasi a segnalare il reciproco interesse a liberarsi, se non dell’intruso, dei vincoli politici del richiesto rinnovo dell’originario patto politico.

L’applauso che a Montecitorio ha salutato il dimissionario Draghi è sembrato suonare la cattiva coscienza dell’azzardo. Per dire, cosa sarà dei decreti, comunque espressione della maggioranza, che ancora attendono la conversione in legge? E dei provvedimenti che – come ha avvertito il Capo dello Stato – le vecchie e nuove emergenze dovessero imporre? Vero è che formalmente il governo non è stato sfiduciato ma in parlamento non potrà più richiedere la fiducia di una maggioranza che deliberatamente ha scelto di scomporsi per inseguire qualche taxista o certi costruttori.

Qualche meccanismo di scomposizione delle vecchie convenienze si è comunque messo in moto, più marcatamente nel M5S, con la scissione di Luigi Di Maio, che nello schieramento opposto con le iniziali defezioni ministeriali di Mariastella Gelmini e Renato Brunetta (in attesa di Mara Carfagna?) da Forza Italia, per non dire del disagio dei governatori leghisti.

Ma quel che stenta a farsi strada è la ricomposizione degli equilibri politici che era nel potere solo di un Parlamento nella pienezza delle proprie funzioni e con la legittimazione offerta dall’interesse generale. Invece, ci si affida a quel Rosatellum (a onta della riforma elettorale promessa a seguito del taglio secco di un terzo del Parlamento) che ha già costretto a inseguire le più disparate formule di governo. E, poiché prevede il voto su un’unica scheda, non consente nemmeno quella desistenza che in altre fasi politiche era servita per distinguere identità e responsabilità.

C’è un ultimo appello di Mattarella, questa volta a sostegno dell’interesse nazionale, perché il passaggio elettorale avvenga senza forzature e ambiguità. Nell’esporlo il presidente non ha nascosto l’amarezza, se non la delusione, per aver dovuto, dopo la costrizione al secondo mandato, nuovamente arrendersi alla impotenza della politica. La riacquisita prerogativa dello scioglimento delle Camere gli consente, però, di rimettere quel dovere,  che tanto è sembrato spaventare la politica, alla responsabilità di una battaglia su una risolutiva espressione della sovranità popolare. 


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