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Emmanuel Macron e Angela Merkel

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LA STORIA dell’Italia repubblicana può essere rappresentata come una ricerca mai completata di stabilità politica ed efficacia decisionale. Come anche di recente ricordato da Sabino Cassese tale ricerca affonda le sue radici nel dibattito interno della Costituente. Con l’ordine del giorno del 4 settembre 1946, i membri della seconda sottocommissione decidevano di adottare il sistema parlamentare, al quale aggiungere però “dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.

Ebbene questa parte del dettato costituzionale è rimasta inevasa e se possibile la situazione è peggiorata dal momento che ora la razionalizzazione della forma di governo dovrebbe venire incontro ad almeno altre tre asimmetrie. Prima di tutto uno squilibrio tra le regioni, dominate dal primato dell’esecutivo nella persona del governatore, e lo Stato, ancora formalmente a regime parlamentare. In secondo luogo, un evidente primato della presidenza della Repubblica che, complice la lunga crisi politico-partitica dell’ultimo trentennio, accanto al ruolo di garanzia ha finito per imprimere il proprio indirizzo politico nella formazione di numerosi esecutivi e nelle più delicate e fondamentali scelte di politica internazionale (ed europea in particolare). E infine una sempre più accentuata asimmetria tra governi nazionali, in particolare in ambito comunitario.

Il confronto con i contesti francese e tedesco è per l’Italia impietoso. Nei 64 anni di vita della V Repubblica francese si sono avvicendati otto presidenti della Repubblica. Nei 73 anni di vita della Repubblica Federale tedesca, poi Germania unita, si arriva a nove cancellieri, con Angela Merkel che ha superato i 15 alla guida del Paese. Con il crollo della cosiddetta “prima Repubblica” si consolida nel contesto italiano una vera e propria “ossessione costituzionale”. Tra le accuse mosse alla cosiddetta Repubblica dei partiti, vi è proprio quella di non aver garantito una coerente evoluzione istituzionale.

Sin dai profondi anni Settanta del secolo scorso, quando crisi economica e minaccia terroristica rischiano di mandare a fondo il sistema democratico italiano, mondo accademico, giornalistico ma anche politico si affannano nelle più disparate proposte di riforma delle istituzioni. Ad insistere sulla necessità di razionalizzare il parlamentarismo italiano saranno tra i primi gli intellettuali riuniti attorno a Gianfranco Miglio e quelli di area socialista nella rinnovata rivista Mondoperaio (tra gli altri Amato, Pasquino, Galli della Loggia, ecc). Il cosiddetto “decalogo” del governo a guida Spadolini e la commissione parlamentare Bozzi nata dopo le elezioni del 1983, assieme alla proposta di “Grande Riforma” craxiana, da un lato confermano tale necessità, ma dall’altro testimoniano l’incapacità di giungere a soluzioni concrete ed applicabili.

Ben prima dell’arresto di Mario Chiesa del febbraio 1992, è il messaggio alle Camere del presidente Cossiga di fine giugno 1991 a certificare la crisi dell’assetto politico-istituzionale repubblicano. È la più alta carica dello Stato a chiedere ai parlamentari un impegno concreto per l’autoriforma del sistema. La commissione De Mita (poi a guida Iotti) del 1993-1994 e quella D’Alema del 1997 si chiuderanno con due completi “nulla di fatto” e sostanzialmente saranno soltanto i referendum applicati al sistema elettorale (proposti dal movimento guidato da inizio anni Novanta da Mario Segni) ad imporre una serie di mutamenti nella costituzione materiale, prima fra tutti una legittimazione elettorale personale da parte di colui che dovrà svolgere l’incarico di presidente del Consiglio. È in definitiva possibile tracciare una lunga linea che da Miglio giunge sino al tentativo renziano fallito nel 2016.

L’obiettivo rimane il medesimo, quello di ricercare la stabilità governativa e l’efficacia a livello decisionale. Il tutto in un contesto nel quale il potere esecutivo possa godere di una chiara legittimazione e quello legislativo esercitare il suo doppio compito di produttore di leggi e di controllore delle procedure. Questa lunga premessa per affermare che non dovrebbe né scandalizzare, né sorprendere che una delle coalizioni di partiti che si candida alla guida del Paese in questa folle campagna elettorale estiva avanzi una proposta di riforma dell’assetto istituzionale del Paese.

Il vero problema è il carattere confuso di tale proposta definita, in maniera semplicistica e un po’ dilettantistica, come “presidenziale”. In realtà la proposta del centro-destra (la cui base è un progetto da tempo elaborato negli ambienti intellettuali più vicini a Giorgia Meloni) prevede un presidente eletto direttamente che dovrebbe incarnare il ruolo di capo del governo, la presenza di un parlamento senza poteri di fiducia ma con quello (importato dal modello tedesco) di sfiducia costruttiva. Non si tratta dunque di un sistema presidenziale, ma nemmeno di uno semipresidenziale. Ci si trova di fronte ad uno strano ircocervo, con il rischio di accostare una doppia legittimazione: quella diretta del Presidente a quella indiretta del Parlamento, comunque gestore dello strumento della sfiducia costruttiva, producendo così uno stallo se non uno scontro ai vertici.

Per cercare di fare un minimo chiarezza occorre allora distinguere tra modello presidenziale e modello semipresidenziale, non dimenticando un accenno al cancellierato alla tedesca. Caratteristica imprescindibile del modello presidenziale è la netta separazione tra esecutivo e legislativo. L’idealtipo di modello presidenziale è quello statunitense, nel quale infatti il presidente della Repubblica non può essere sfiduciato dalle due Camere (se non con procedura di impeachment) e queste non possono però essere sciolte dall’inquilino della Casa Bianca.

Il sistema semipresidenziale, il cui idealtipo può essere considerato il modello francese, unisce alcune caratteristiche del sistema presidenziale a quelle del modello parlamentare. Da una parte il presidente, eletto direttamente (ora per cinque e originariamente per sette anni) può sciogliere il Parlamento e organizzare referendum. Dall’altro lato però permane la figura del Primo ministro, il quale può essere sfiduciato con mozione di censura da parte del Parlamento. In caso di una chiara maggioranza parlamentare, a guidare il Paese sarà il presidente forte della sua legittimazione diretta. Ma se non dovesse emergere una evidente maggioranza parlamentare o se addirittura questa dovesse essere opposta a quella che ha eletto il presidente, il sistema funzionerebbe come un parlamentarismo razionalizzato classico, in regime detto di coabitazione.

Per quanto riguarda infine il cancellierato (modello idealtipico quello tedesco) siamo di fronte ad un esempio di parlamentarismo razionalizzato, il cui elemento più caratteristico è proprio quello della già menzionata sfiducia costruttiva. Il destinatario è il cancelliere in carica e la stabilità governativa è garantita dal momento che è impossibile, nell’arco della legislatura, la caduta di un governo se il Bundestag non si trova nella condizione di raccogliere una maggioranza per proporne un altro, guidato da un nuovo cancelliere. Occorre infine ricordare che si procede ad elezioni anticipate solo in caso di rigetto della questione di fiducia. Meccanismo utilizzato, con non poche critiche, da Brandt nel 1972, da Kohl nel 1982 (giunto al potere con una precedente mozione di sfiducia costruttiva al governo Schmidt) e da Schroeder nel 2005 (dal voto successivo uscirà poi la prima grande coalizione a guida Angela Merkel).

Considerate queste caratteristiche, la proposta del centro-destra sembrerebbe richiamare il semipresidenzialismo alla francese. E qui si impongono due considerazioni. Da un lato la “passione italiana” per il semipresidenzialismo alla francese è stata, in epoca di “transizione italiana” post-Tangentopoli, in larga parte ascrivibile ad ambienti progressisti. I politologi Pasquino e Massari ne sono stati grandi sostenitori e anche importanti giuristi come Barbera e Ceccanti ne hanno sottolineato l’importanza, seppur in subordine alla preferenza primo ministeriale. Oggi le posizioni sembrano essersi, paradossalmente, rovesciate.

La seconda considerazione è invece legata all’evoluzione politico-istituzionale del cosiddetto modello francese. Nato come risposta al rischio di guerra civile legata alla crisi algerina, il sistema si è definitivamente consolidato quando ha mostrato di poter sopravvivere all’uscita di scena del suo fondatore, il leader storico-carismatico de Gaulle, così come all’arrivo al potere nel 1981 di colui che non aveva esitato nei suoi primi anni di vita a delegittimare il sistema, cioè François Mitterrand. Un ulteriore e decisivo passaggio è stato poi quello di inizio XXI secolo, quando con la riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni il sistema ha cercato (e fino ad oggi sembra esservi riuscito) a porre rimedio ad una successiva serie di controproducenti coabitazioni.

Nonostante tutto ciò, l’attuale crisi delle due culture politiche tradizionalmente cardine del sistema (gollisti e socialisti) unita ad una pericolosa sovraesposizione del presidente della Repubblica (e ad una conseguente inutilità del Primo ministro) hanno aperto non pochi dibattiti sull’opportunità di andare verso una VI Repubblica, o definitivamente presidenziale o risolutamente parlamentare. Proprio questa ultima considerazione dovrebbe essere un memento per gli apprendisti stregoni dell’ingegneria costituzionale comparata.

I sistemi istituzionali vivono “nella e della” storia e funzionano solo e soltanto se si riesce a comporre un mix virtuoso tra tradizioni e culture politiche (ma anche tra sistema partitico e legge elettorale), sensibilità antropologiche e dinamiche economiche e sociali. Perdere di vista tutto ciò significa, al solito, alimentare false illusioni e pericolose semplificazioni.


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