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Carlo Calenda

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Il colloquio tra Giorgia Meloni e Carlo Calenda ha suscitato molto interesse e parecchie polemiche: più le seconde in verità.

Nel mare stagnante della politica italiana, con la destra impegnata a convincere di saper governare ottimizzando il vasto consenso ricevuto e la sinistra disarticolata e alle prese, in particolare il Pd, con questioni identitarie, il centro dello schieramento è quello che si muove di più, che più fa politica si sarebbe detto una volta, seppur nei modi e nelle maniere di adesso.

Ossia con buone dosi di spregiudicatezza, considerando i retroscena di Francesco Verderami sul Corriere che spiega come accanto alle mosse di Calenda ci siano quelle di Renzi nei riguardi di Berlusconi.

Con altrettanta indeterminatezza rispetto agli obiettivi futuri, essendo quelli più immediati abbastanza chiari: da parte della presidente del Consiglio di incunearsi nelle difficoltà dell’opposizione; da parte di Calenda di dimostrare di essere capace di interlocuzione a vasto raggio e comunque di stare in una posizione determinante e di ago della bilancia per futuri scenari.

Ma questa, tuttavia, è solo la superficie. Come lo sono gli arzigogoli riguardo al fatto che il Terzo polo possa entrare in maggioranza sostituendo Forza Italia o pezzi di coalizione eventualmente in sofferenza.

È  una prospettiva poco credibile. Intanto per i numeri, visto che quelli del duo Calenda-Renzi non  sarebbero sufficienti a colmare il vuoto dei berluscones. E poi perché se davvero un simile sottosopra dovesse avverarsi comporterebbe uno sconquasso nella maggioranza che ha vinto le elezioni e una fortissima spinta a tornare alle urne. Esito che certo Meloni non può augurarsi e quanto a Calenda e Renzi sarebbe difficile spiegare agli elettori che elezioni anticipate sono cosa buona e giusta e ancor più lo sarebbe un eventuale appoggio alla destra.

E allora se si tratta di una prospettiva evanescente perché tanta enfasi per un verso e tanto nervosismo per l’altro?

La voglia di determinare titoli sui giornali va bene, ma è effimera e non spiega a sufficienza.

Forse bisogna porsi da un altro angolo visuale. E allargare il cerchio di osservazione. Succede infatti che un giorno nel Parlamento europeo va in tilt la sinistra italiana che si divide in più tronconi sul voto nei riguardi di Putin “terrorista”. E poi che ventiquattr’ore dopo  a divaricarsi sia il centrodestra riguardo Orbàn “illiberale”. Degli affondi di Calenda e Renzi si è detto, e sullo sfondo ci sono i tormenti del Nazareno, le incursioni di Conte, il lavorìo sommerso ma incessante di FdI per creare un contenitore a largo spettro e su misura alle elezioni europee tra due anni per le ambizioni di Meloni.

Cosa ci dicono tutti questi tasselli? Quale mosaico possono realizzare? Difficile districarsi tra velleità e vere e proprie operazioni politiche.

Tuttavia è impossibile non rilevare – considerazione più volte espressa su queste colonne –  che per come si sono agglutinati e presentati agli italiani nella competizione elettorale, i due schieramenti di centrodestra e centrosinistra, con relativi sfrangiamenti e “assoli” sopratutto di quest’ultima, sono poco più che finzioni, contenitori mediatici con tanta fuffa e poca sostanza.

La maggioranza, nonostante  l’abilità “atlantica” fin qui mostrata dalla premier, non è in grado di esprimere una posizione coesa e coerente rispetto alla guerra in Ucraina, i rapporti con Putin o il confronto con la Ue. Roba serissima che o viene sanata oppure provocherà sussulti tellurici di non poco conto rischiando di isolare l’Italia come è avvenuto nella diatriba con la Francia sugli immigrati.

La sinistra è alle prese con un ubi consistam, col Pd alla ricerca dell’arca perduta di un improbabile congresso palingenetico che al dunque minaccia di essere l’eterna riproposizione del gioco delle correnti per accalappiare i posti migliori; mentre i Cinquestelle alzano il tono della protesta e se una simile prospettiva dovesse prevalere di rimbalzo anche l’atteggiamento del governo potrebbe assumere pose più radicali avviando uno scontro che non sembra essere il percorso migliore per affrontare i nodi della crisi economica, della disuguaglianza sociale, del rispetto tra forze politiche “mature”.

Proprio per questo, tutte le voci che si levano e gli sforzi che si producono per ritrovare un’idealità nel confronto politico tale da produrre un salto di qualità quanto mai necessario, vanno segnalate e incoraggiate. È il caso del manifesto messo a punto dai “miglioristi” del Pd che hanno elaborato una proposta che reca come prima firma quella di Marco Bentivogli e poi annovera personalità di riguardo come il costituzionalista Stefano Ceccanti, Enrico Morando, Tommaso Nannicini, Umberto Ranieri.

 Il punto principale è ridare dignità politica e accessibilità sociale al lavoro, inteso non semplicemente come occupazione ma come affermazione dei diritti e della dignità delle persone. L’obiettivo ultimo, come recita il manifesto, è “proteggere l’Italia dai populismi di destra e di sinistra” con chiaro riferimento al M5S.

Ed inoltre “combattere le diseguaglianze con la crescita; scommettere su una transizione ecologica compatibile con la difesa del benessere e  aprire una nuova fase sui salari”.

Insomma trasformare il Pd in un vero partito laburista, garantista e attento alle nuove generazioni. Molta carne al fuoco: per cucinare una nuova identità e spegnere sul nascere i “caminetti” fatti per spartirsi poltrone e incarichi. Una forte spinta, senz’altro.  Chissà quanto efficace. Però esiste e ignorarla non sarà assai complicato.


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