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Giorgia Meloni ed Enrico Letta

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Lunedì scorso è stata un giorno molto importante per il governo italiano. Com’è ormai noto, infatti, a Bruxelles, nel corso del Consiglio europeo straordinario dedicato all’energia, i ministri competente dei 27 paesi membri hanno trovato l’accordo a maggioranza qualificata per l’applicazione di un tetto sul prezzo del gas.

Il price cap è stato fissato a 180 euro a Megavattora ed entrerà in vigore il 15 febbraio prossimo. Il governo italiano può gongolare perché, a dispetto della proposta iniziale a 275 euro a MWh, ha prevalso la linea dei Paesi, Italia compresa, che chiedevano una soglia più bassa. Per di più, su questa linea, si è spostato alla fine anche il governo tedesco di Olaf Scholz, dopo che per mesi la Germania aveva espresso forti perplessità: davvero un osso duro nella lunga sequenza di trattative. In questo modo, l’opposizione dell’Ungheria e l’astensione di Austria e Olanda risultano ininfluenti. “È la vittoria dei cittadini italiani ed europei che chiedono sicurezza energetica”, ha scritto su Twitter il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ricordando poi pure che si tratta di una “vittoria dell’Italia che ha creduto e lavorato per raggiungere questo accordo”.

Decisamente più precise ed esaustive le parole di Giorgia Meloni. Uscendo dal Museo ebraico di Roma dove ha preso parte alla cerimonia di accensione della Hanukkah, lunedì sera la premier ha ribadito che “l’accordo raggiunto in Europa sul tetto al prezzo del gas è una grande vittoria italiana”. Ma ha anche ammesso che è stata “costruita con molta pazienza” e che, per questo, “va ringraziato anche il precedente governo che l’ha istruita”. E, accanto ai suoi ministri – Pichetto e Fitto – ricorda anche Cingolani, che aveva aperto la strada al successo di oggi. In questo modo, la presidente del consiglio sembra ancora una volta, giocare la carta della continuità con Mario Draghi, nella accettazione di un fecondo dialogo con la dimensione europea.

Tutto bene, allora? Possiamo scrivere la classica frase finale delle favole: e tutti vissero felici e contenti? Non proprio. Per complicare parecchio il quadro nel quale si iscrive l’azione di governo bisogna sottolineare almeno due aspetti. Il primo è che nei suoi dieci anni di vita Fratelli d’Italia ha costruito la sua identità politica sull’ostilità all’Europa ed è stato l’unico partito sempre all’opposizione di tutti i governi, specie quelli di impronta europeista. Non a caso, la posizione di Fdi predilige l’idea confederale, nella quale le istituzioni di Bruxelles devono legificare e decidere il meno possibile sulla gran parte delle questioni, lasciando ai singoli stati di provvedere da sé oppure rimandando le scelte al concerto delle nazioni europee.

Viceversa, il partito di Meloni guarda da sempre con sospetto il progresso istituzionale dell’Ue verso la prospettiva federale che coinciderebbe con una sempre maggiore cessione di sovranità da parte di ciascun paese membro. E con un importante rafforzamento dell’esecutivo europeo che diventerebbe finalmente centrale nella definizione di politiche unitarie capaci di superare la frammentazione nazionalistica che oggi ritarda parecchio l’iniziativa dell’Unione. Sul punto, Meloni non sembra offrire sufficienti garanzie.

D’altra parte, bisogna pur ricordare che l’exploit elettorale viene proprio dall’aver cavalcato i sentimenti euroscettici di un certo tipo di elettorato. Gran parte del quale deriva, non a caso, dalla Lega, l’altro partito populista ed euroscettico che stavolta ha probabilmente pagato la partecipazione a due governi completamente in contraddizione tra loro: quello gialloverde guidato da Conte e quello europeista guidato da Draghi. Il secondo aspetto rilevante per giudicare l’azione di questo governo riguarda le numerose e goffe retromarce alle quali è stato costretto di recente, anche in virtù dei rapporti con l’Unione europea.

Prima era stato il caso delle norme contro i “Rave Party”, all’inizio molto severe e, per alcuni, perfino anticostituzionali, poi riviste e corrette per smussarne gli eccessi. L’altro ieri, poi, è saltata la norma sul pos che autorizzava tutti gli esercenti, dai commercianti ai lavoratori indipendenti, a non accettare pagamenti con carte di credito e pos fino a 60 euro di spesa. La misura aveva ricevuto forti critiche dalla Commissione europea che la considera in controtendenza con gli obiettivi del Piano di ripresa e resilienza sull’evasione fiscale. Il governo è perciò andato incontro alle richieste europee.

Ciò non basta, perché verrà rimandato anche il condono fiscale: lo stralcio delle cartelle esattoriali contratte fra il 2000 e il 2015 per importi fino a mille euro – anche questo finito nel mirino dell’Unione europea – slitta di due mesi, dal 31 gennaio al 31 marzo 2023. Saranno inoltre escluse le multe: saranno i singoli Comuni a scegliere di applicare o meno la norma. Sulle sanzioni amministrative, incluse quelle per violazioni del codice della strada, lo stralcio si applica solo sugli interessi. In conclusione, alcune uscite improvvisate del governo dovranno essere ritirate per la necessità di mantenere i buoni rapporti con chi gestisce l’ambita borsa dei fondi del Pnrr: l’Europa.

Chi preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno può sempre dire che la retromarcia del governo è un segnale positivo che denota ragionevolezza. Chi guarda il bicchiere mezzo vuoto potrà sempre dire che, in fondo, il governo ci aveva provato a fare il furbo e che, alla fine, bisogna dire grazie solo all’occhio vigile di Bruxelles. La situazione è obiettivamente contraddittoria. Da una parte, Giorgia Meloni non sembra ancora in grado di resistere alle intemerate della sua coalizione, salvo poi essere costretta a ridicoli dietrofront, con il rischio di richiamare alla memoria le vecchie abitudini del Berlusconismo.

Dall’altra parte, la sensazione è che basti un buffetto da parte di Bruxelles per rimettere il governo italiano in carreggiata, evitando che vada a sbandare fuori dalla strada maestra. In altre parole, l’Italia sembra aver perso del tutto quella capacità di orientare e indirizzare i processi europei che aveva avuto il governo Draghi. Con Meloni, il nostro paese sembra adeguato soltanto a svolgere i compiti per casa già assegnati, sebbene sia grande la tentazione di “fare sega”, approfittando di una disattenzione che l’occhiuta vigilanza dell’Europa non si concederà mai. Alla fine ricomincia il tran tran concordato con tanto di rivendicazioni di spirito europeistico. Questo modo di procedere non garantisce grandissimo respiro al paese, ma, allo stesso tempo, confonde l’opposizione. Difficile impostare una alternativa di governo sulla critica contro le norme sui rave o contro l’introduzione del tetto per il pos. Specie se poi tutto si rivela sempre un falso allarme. Il bivio delle opposizioni per adesso è impraticabile.

Da una parte, c’è la strada della demagogia populista e irresponsabile del grillismo. Dall’altra, specie se il governo si mette buono buono a fare i compiti assegnati dall’Europa, diventa difficile capire qual è il controcanto dei riformisti. E, nel mezzo, c’è il congresso del Pd, alle prese con una palpabile crisi di funzione. Così, se il governo Meloni procede a tentoni con continue retromarce, dall’altra parte nessuno ha ancora trovato l’idea giusta per metterlo in difficoltà.


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