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Elly Schlein

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«Mettetevi comodi, siamo qui per restare» aveva detto Elly Schlein una settimana fa per rintuzzare le critiche dopo la sconfitta alle elezioni amministrative. Traduzione: costruire la nuova linea politica del Pd è un lavoro faticoso che chiederà parecchio tempo. E un certo circuito mediatico intellettuale si è subito stretto intorno a Schlein per sostenerla in questo titanico impegno.

Ma la sensazione emergente è un’altra. Il tempo non c’entra niente, è proprio la linea che manca. Schlein è registrata su un’agenda movimentista e utopista che ha ben poco da spartire con la storia e l’identità del Pd. Il quale nasce esattamente per fare il contrario: cioè governare. Con le settimane che passano, il rischio del cortocircuito – un partito che nasce per farsi istituzione ma che, una volta all’opposizione, si ritrova a incarnare un’agenda populista che non gli appartiene e non sfonda nell’elettorato – è sempre più forte.

LA LINEA CHE NON C’È

Nessuno ha capito dove va il Pd di Elly Schlein. D’altra parte, se davvero la segretaria seguisse il suo istinto radicale e la sua cultura astratta risulterebbe presto indigesta alla grande maggioranza del suo  partito. E così Schlein si ritrova a navigare nell’ambiguità, tentando forzature che non può portare fino in fondo.

È il caso del recente voto del Parlamento europeo sulle spese militari. Per il Pd, un clamoroso pasticcio. Per la vulgata di sinistra ha raccontato la storia inesistente di un voto per scegliere sulla destinazione dei soldi del Pnrr: a tutela del welfare e dell’ambiente o a vantaggio dei signori della guerra? Un dibattito surreale, vivo solo in Italia sulla base di una manipolazione bella e buona.

Semplicemente, il provvedimento prevedeva, tra le altre cose, la facoltà (non certo l’obbligo), per i Paesi che lo ritenessero opportuno, di destinare una quota parte dei fondi del Next Generation Eu alla difesa, in ragione dell’emergenza ucraina. In altri termini, il voto, lungi dal sottrarre risorse a fini più nobili, rappresentava una base fondamentale per la costruzione di quella difesa comune europea di cui si lamenta la mancanza da decenni.

E da qualche parte bisognerà pur cominciare, se non si vuole restare perennemente esposti ai capricci del dittatore di turno e subalterni alla protezione americana, sempre contestata ma avallata di fatto da questi tentativi di disimpegno oltranzista.

Con la pretesa di far astenere la delegazione del Pd e con la successiva retromarcia nel nome della libertà di voto provocata dalla ragionevolezza della maggioranza degli eurodeputati dem, Schlein ha mostrato di non aver capito il contenuto di merito del voto e di non avere il controllo della situazione.

Insomma, non è una questione di tempo necessario per la costruzione di una linea politica. È proprio sbagliata la linea politica. Gli stessi eletti dem la respingono per l’ovvio motivo che, in questi anni, sugli impegni da assumere in Europa, la linea del Pd era tutt’altra.

GLI “AL LUPO AL LUPO”

A queste gaffe colossali si aggiunge il dejavu dell’allarmismo ideologico che disegna l’Italia come un Paese a democrazia limitata. Uno schema mentale sempre valido, alimentato e moltiplicato dalla cerchia di opinionisti militanti sui media. A questo cliché si è ispirata, per esempio, la critica allo spoils system applicato dal governo sulla Rai. Dimenticando che la tv di stato funziona sostanzialmente come un ministero e che la sua governance dipende direttamente dalla maggioranza dei partiti al governo.

Insomma, “così fan tutte”. Difficile urlare “al lupo al lupo” quando lo spoils system lo fanno gli altri se tu lo hai sempre fatto quando eri a tua volta maggioranza. L’ultimo caso riguarda i rapporti tra le istituzioni. L’iniziativa governativa di abrogazione parziale del controllo concomitante sul Pnrr effettuato dalla Corte dei conti è stato letto come una dimostrazione di autoritarismo.

In realtà, come hanno giustamente chiarito diversi illustri giuristi, neanche lontanamente sospettabili di simpatie autoritarie, la scelta del governo appare sacrosanta perché aiuta a rimettere nella giusta prospettiva il rapporto tra pubblica amministrazione e controlli e a velocizzare le procedure per la realizzazione degli obiettivi del piano.

Allo stesso modo, da qualche giorno è scattato l’allarme sulla “trumpizzazione” della Corte costituzionale, ovvero sul pericolo che la maggioranza di destra possa nominare i nuovi giudici costituzionali tra le sue fila esercitando un controllo pervasivo di un organo fondamentale.

La questione, in realtà, è molto meno preoccupante di come viene raccontata. A breve andranno in scadenza tre giudici. Due di essi saranno rimpiazzati dal presidente della Repubblica nell’esercizio delle sue prerogative: difficile immaginare che Mattarella possa scegliere figure divisive o inadeguate. Il terzo giudice sarà scelto dal Parlamento, questo sì, probabilmente dalla maggioranza dei partiti, così come è sempre successo in passato, mentre la presidenza potrebbe andare a un apprezzato giurista democratico e riformista come Augusto Barbera.

 Insomma, nessun pericolo all’orizzonte, a dispetto di ciò che racconta  certa stampa interessata. Semmai il problema si porrà più avanti, quando saranno da sostituire tre giudici di nomina parlamentare: ma sarà proprio quello il caso in cui potremo pesare la sostanza di un’opposizione seria, capace di gestire con la maggioranza un processo condiviso di nomina dei nuovi membri laici.

LE GAFFE A RIPETIZIONE

Il problema è che se si va avanti così, senza una linea politica seria e sulla base di un’indignazione a comando per via di pericoli inventati c’è il rischio di fare la stessa fine della scrittrice Michela Murgia, protagonista di un infortunio grottesco (rilanciato anche dal collega Roberto Saviano): scambiare per un saluto fascista il grido “Decima!” del Goi (il Gruppo operativo incursori del Comsubin) e il braccio alzato d’ordinanza per salutare la tribuna delle autorità, azioni rituali da sempre eseguite durante le celebrazioni del 2 giugno, festa della Repubblica.

La verità è che questo tipo di opposizione, prima culturale e poi politica, già non ha funzionato per vent’anni, quando era in auge Silvio Berlusconi, che pure ne aveva fatte di cotte e di crude. Figuriamoci se può funzionare con Giorgia Meloni, determinata a liberarsi degli eccessi populisti e a costruirsi uno standing istituzionale ed europeista.

Insomma, per il Pd la situazione è davvero complicata. Difficile che  Schlein possa durare a lungo in queste condizioni. Di sicuro dovrebbe guardarsi dall’inseguire il cerchio mediatico-intellettuale che pensa di aiutarla con queste polemiche lontane dal buon senso, oltre che dal senso comune.


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