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Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte

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MES o non MES; extra-deficit o non extra-deficit; task force o non task force. Insomma, come un moderno Amleto, il premier Conte si trova -e si è trovato- ad affrontare dilemmi tutt’altro che di poco conto. La spaccatura in casa è molto simile a quella che si è avuta all’Europarlamento nei giorni scorsi: da un lato M5S, Lega e Fdi, dall’altro Pd, Iv e FI.

Certo è che i 750 miliardi del Recovery Fund rientrano a pieno titolo nelle vittorie dell’amministrazione Conte, costati – tra le altre cose – ben 91 ore di negoziati. Secondo le stime attuali (soggette comunque a variazioni sul medio-lungo termine che potrebbero rivelarsi anche consistenti) l’Italia dovrebbe, e il condizionale è d’obbligo, ricevere 208,8 miliardi da questo piano per il rilancio (nel quale figura anche il fratello meno famoso del fondo, il “Sure”, un programma varato per finanziare i fondi nazionali per la disoccupazione) di cui, però, solo 81,4 miliardi sono a fondo perduto. Infatti, i restati 127,4 miliardi sono in realtà un prestito che l’Italia sarà obbligata a restituire a partire dal 2027, a fronte di un’erogazione che, però, comincerà solo l’anno prossimo.

Gli euroscettici parlano già di “fregatura” (parte il quiz per indovinare chi l’ha detto e potete scegliere tra ‘Salvini’, ‘Matteo Salvini’ e ‘Salvini Matteo’) ma si tratta, piuttosto, di un logico se non fisiologico piano di rientro a livello comunitario anche considerato che una buona fetta della torta è, invece, un regalo.

A destituire di fondamento la millantata “fregatura” è pure la rivoluzione, nel campo, tutta italiana: se infatti dai medesimi della “fregatura” sono spesso arrivate doglianze in merito al ruolo dell’Italia quale Paese “contributore netto” del bilancio europeo (sempliciter, il nostro Tricolore ha versato, nel tempo, più di quanto effettivamente sia tornato indietro con i programmi comunitari), per il Recovery Fund l’Italia sembrerebbe figurare invece quale “beneficiario netto”, anche a scapito dei “Paesi frugali” che hanno fatto non poco ostracismo in sede di trattative. Il perché di questa revisione è facilmente intuibile: il nostro Paese non è solo tra i più colpiti dal Covid-19 e dalle sue conseguenze, ma si è posizionato come un vero e proprio “Stato di trincea” contro la pandemia, il primo Paese dell’Occidente ad essere colpito dall’onda d’urto di questo male invisibile. Anche solo per questo, diverse sono le attenuanti che si dovrebbero riconoscere a Conte per le “pecche” riscontrate da più parti nella gestione dell’emergenza e del periodo post-emergenziale (io per prima, da queste stesse pagine, ho parlato della caduta di stile del premier quando sferrò un attacco diretto all’opposizione durante una delle ormai celebri dirette) e, carta canta, un risultato del genere è una vera e propria vittoria nel braccio di ferro comunitario.

Margini di miglioramento c’erano: basti pensare in proposito che la proposta franco-tedesca era inizialmente più ghiotta, con 2/3 a fondo perduto e solo 1/3 di sovvenzioni (quindi meno miliardi da restituire per tutti) ma, si sa, “chi si accontenta, gode”. Una circostanza che, invece, è passata indebitamente in cavalleria è il depotenziamento (ma trattasi di eufemismo) del vincolo dello “stato di diritto”: la Commissione aveva proposto una clausola di salvaguardia atta a tagliare gli aiuti ai Paesi nel caso di violazioni in materia. Un provvedimento intenzionalmente inserito per braccare due dei “Paesi frugali” e cioè Ungheria e Polonia, nell’occhio del ciclone soprattutto per il caso Orban. Ebbene, di questa clausola rimangono a malapena le ossa dal momento che è stata ritirata dal tavolo dopo che, proprio il premier ungherese Viktor Orban, ha minacciato di bloccare l’intero pacchetto con Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia nelle retrovie.

Considerate le invettive e le minacce di qualche tempo fa provenienti proprio dalla Von der Leyen e il clamore mediatico della vicenda ungherese, questa battuta in ritirata causa una mastodontica perdita di credibilità (nonchè, conseguentemente, di potere contrattuale) a livello globale dei sostenitori dello “stato di diritto”. E il “molto rumore per nulla”, è noto, non è mai una buona idea.


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