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Giorgia Meloni ed Elly Schlein

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QUANDO si parla di donne, emancipazione, potere e parità, soprattutto nel mese di marzo, è facile cadere nella trappola della stucchevole retorica e degli slogan accattivanti, ma vuoti. Ciò da cui dovrebbe sempre partire la riflessione è l’analisi dei dati a nostra disposizione. Tra questi, non può che spiccare il Global Gender Gap Index report, redatto e pubblicato dal World Economic Forum, in cui vengono rilevati i progressi di 146 Paesi misurando i risultati raggiunti. Il divario di genere globale è stato colmato al 68,1% e, mantenendo questo andamento, ci vorranno circa 132 anni per raggiungere la piena parità.

L’Italia ha colmato il divario per il 72% e si attesta così al 63° posto. A progredire a livello mondiale è la presenza delle donne nelle cariche pubbliche: la media mondiale di donne in parlamento è salita dal 14,9 al 22,9%. In Italia, tuttavia, le scorse elezioni hanno fatto registrare il primo calo in oltre vent’anni: siamo infatti passati dal 35 al 31,1% tra deputate e senatrici. Le donne hanno anche votato meno: rappresentano il 51,74% degli aventi diritto al voto, ma solo il 62,19% si è recata alle urne (contro il 65,74% degli uomini).

Per quanto riguarda i vertici delle forze politiche, oggi sono tre le donne alla guida di partiti: Giorgia Meloni (FdI), Mara Carfagna (Azione) e Elly Schlein (Partito Democratico). Proprio l’elezione di Schlein a segretaria del PD, avvenuta nei giorni scorsi, ha spinto alcuni analisti a parlare di “effetto Meloni” e ha riacceso i riflettori sulle difficoltà di accesso delle donne a posizioni manageriali e di spicco in ambito lavorativo e, quindi, anche politico. Il soffitto di cristallo è ormai cosa nota, oggetto di studio e dibattito, ma una narrazione sbagliata e talvolta intrisa di paternalismo o vittimismo rischia di rivelarsi controproducente. Pensiamo per un attimo proprio all’elezione di Schlein: è la prima donna alla guida del PD, la persona più giovane a ricoprire l’incarico e la prima apertamente LGBTQI+ a guidare un grande partito nel nostro Paese. Una vittoria inaspettata per molti, arrivata alla fine di un congresso che la vedeva sfavorita e che ha riacceso il dibattito sulle correnti interne al PD, sulle gerarchie interne allo stesso e sulla necessità impellente di rinnovare il partito. Solo il tempo ci dirà in che modo opererà la segretaria e quanto del suo programma di rinnovamento riuscirà a portare a termine, ma è chiara la contrapposizione – spesso alimentata proprio dai media – con la premier Meloni. Le due leader non potrebbero essere più diverse, ma entrambe hanno innanzi sfide – riforme, scelte politiche, rinnovamento delle correnti – da cui passano le sorti del Paese stesso. E, piaccia oppure no, la vittoria di Schlein può in un certo senso essere dovuta anche a quel pezzetto di soffitto di cristallo che Meloni ha già infranto. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Meloni stessa ha battuto alcuni record: è stata deputata per la prima volta a soli 29 anni, vicepresidente della Camera dei deputati nel corso della XV legislatura, Ministra della Gioventù a 31 anni nel 2008 e, da ottobre 2022, prima donna Presidente del Consiglio. Emblematica anche la nomina decisa all’unanimità dal plenum del Csm di Margherita Cassano come prima presidente donna della Cassazione, che arriva proprio pochi giorni dopo la ricorrenza dei 60 anni dalla legge che ha permesso alle donne di accedere alla magistratura. Verrebbe quasi da pensare che le quota rosa non siano state poi così inutili.

Eppure, uno sguardo più attento ci consentirà di comprendere quanto sia quanto meno necessario ripensarle. Le quote rosa o, come sarebbe più corretto chiamarle, quote di genere sono tutti quei provvedimenti adottati nei CDA oppure nelle sedi istituzionali che hanno lo scopo di introdurre una determinata percentuale di persone di un dato genere, sanando così gli squilibri e favorendo una parità ancora lontana. Se da un lato sono ancora necessarie, dall’altro ci ricordano che la parità di genere di fatto non c’è e non vi è nulla di gradevole, per le donne, nel sentirsi favorite in quanto tali. Può essere umiliante, infatti, rendersi conto che per accedere ai piani alti delle aziende oppure alla politica sia necessaria una legge ad hoc. È qui che entra in gioco la meritocrazia: le figure di spicco, in qualunque ambito, dovrebbero essere scelte per le proprie capacità, senza nemmeno guardare al genere di appartenenza. È questo lo scenario cui si dovrebbe aspirare e i dati verrebbero in nostro aiuto anche questa volta: secondo AlmaLaurea sono le studentesse a registrare, durante il loro percorso formativo, i risultati più brillanti e secondo ISTAT la percentuale di donne laureate supera quella degli uomini.

Superato lo scoglio meritocratico, qual è la soluzione? Le quote di genere potrebbero divenire un punto di partenza per riflessioni più articolate, quasi come se avessero una funzione pedagogica e potessero così aprire gli occhi – sia delle donne che degli uomini – sui bias di genere che penalizzano le figure femminili, sulla mentalità spesso paternalistica che ci portiamo ancora dietro, sulle riforme e sugli strumenti di welfare necessari affinché la parità non venga imposta per decreto, ma possa nascere spontaneamente ogni giorno.


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