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L’INVERNO demografico in Italia diventa affare di Stato. Del resto, che in gioco ci sia il futuro stesso del nostro Paese è un concetto che avrebbe dovuto essere chiaro da tempo. L’Italia è indietro per quel che riguarda il passaggio generazionale e il ritardo sempre maggiore con il quale si fanno figli, rischia di far traballare l’intera impalcatura economica nazionale.

Gli Stati Generali della Natalità, svolti a Roma l’11 e il 12 maggio, sono stati un momento utile per tirare le somme sull’emergenza delle culle vuote ma, soprattutto, per prendere atto della presenza di un tessuto sociale non più in grado di favorire la formazione di nuove famiglie. Almeno non nel modo giusto. Nella prima giornata di dibattito, il presidente della Fondazione per la Natalità, Gigi De Palo, ha aperto il forum con un dato che appare una sorta di aut aut: «Siamo al record negativo di 339 mila nascite a fronte di 700 mila morti. Se non cambia qualcosa, tra qualche anno, crollerà tutto». E il crollo avverrebbe per questioni evidenti, a cominciare da un gap sempre più ampio tra la generazione dei padri e quella dei figli. Ma, soprattutto, per la mancanza reale di forza lavoro da qui ai prossimi decenni. «L’Italia – ha detto ancora De Palo – oggi stabilmente all’ottavo posto come potenza economica del mondo se non inverte la rotta tra una ventina d’anni crollerà al venticinquesimo posto».

Nella seconda giornata di convegno è stato presente anche Papa Francesco, con il suo richiamo costante alla responsabilità di tutti verso il futuro: «Non possiamo accettare passivamente che tanti giovani fatichino a concretizzare il loro sogno familiare… Occorrono politiche lungimiranti, predisporre un terreno fertile per far fiorire una nuova primavera e lasciarci alle spalle questo inverno demografico. E, visto che il terreno è comune, come comuni sono la società e il futuro, è necessario affrontare il problema insieme». Meno studenti, meno lavoratori. E, di conseguenza, un effetto domino su tutto l’esoscheletro sociale. Una struttura interna sempre più fragile, invecchiata e, per questo, poco futuribile. Un’allerta che non può essere additata unicamente al momento storico attuale. Basti pensare che, secondo i dati Istat, le nascite in Italia, a partire dal 2008, sono diminuite di 176.410 unità, ossia un crollo drastico del 30,6%. Un gap scavato, secondo l’Istituto di Statistica, dall’uscita dalla fase riproduttiva delle donne nate tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta e il numero sempre minore di rappresentanti delle generazioni più giovani. Un solco che sarebbe spiegato dal forte calo della fecondità registrato tra il 1976 e il 1995, anno in cui è stato toccato il minimo storico di 1,19 figli per donna. Un baby-bust che, a distanza di quasi trent’anni, fa sentire tutto il suo peso. Senza che, peraltro, all’orizzonte si vedano segnali di miglioramento. Al netto dei provvedimenti attuati in pandemia, tra precariato lavorativo e instabilità abitativa, i progetti di vita delle giovani coppie accumulano sempre maggiori ritardi. In questo senso, persino la domanda di personale sempre più qualificato allunga inevitabilmente i tempi di stabilizzazione.

Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo messaggio inviato agli Stati Generali della Natalità richiede un immediato cambio di rotta, richiamando l’articolo 31 della Costituzione: «Alle istituzioni compete la responsabilità di attuare politiche attive che permettano alle giovani coppie di realizzare il loro progetto di vita, superando le difficoltà di carattere materiale e di accesso ai servizi che rendono ardua la strada della genitorialità». Non è un mistero che l’attesa di “tempi migliori” porti, più o meno consapevolmente, nelle coppie a una fase di stasi che, se le circostanze della vita non dovessero essere favorevoli, rischierebbe di protrarsi a lungo. Un’attesa forzata anche perché poco agevolata da sostegni mirati, persino nel caso in cui giovani famiglie decidano effettivamente di mettere al mondo dei figli. Per dirne una, è emblematico il rapporto di Save the Children, “Italia a rischio futuro”, nel quale emerge come 6 mamme su 10 non abbiano accesso all’asilo nido e che, in più di un caso su 4, ciò sia dovuto a dei deficit nel servizio pubblico, tra burocrazia e impedimenti vari dovuti allo status familiare. Il che, evidentemente, contravviene agli stessi principi costituzionali richiamati dal Capo dello Stato, ossia la tutela della maternità, dell’infanzia e della gioventù, «favorendo gli istituti necessari e tale scopo».

Un altro punto dolente, questo, specie per quel che riguarda la scuola. Come spiegato dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, «tra 10 anni dagli odierni 7,4 milioni di studenti, dato del 2021, nell’anno scolastico 2033/34 si scenderà a poco più di 6 milioni, a ondate di 110/120mila ragazzi in meno ogni anno». Numeri che, se dovessero restare tali, finirebbero per costare 10-12 mila posti di lavoro ogni anno tra il personale scolastico. C’è bisogno di un’inversione di rotta e il tempo a disposizione è sempre meno. L’ultimo (ma concreto) rischio è che ci si muova troppo tardi.


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