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IL POST Covid ci proietterà verso una società sempre più digitale ma l’Italia rischia di arrivarci, ancora una volta, divisa: da una parte il Nord trainato da imprese aperte all’innovazione, dall’altra il Sud schiavo di una pubblica amministrazione stantia.

Giorgio Ventre, direttore del Dipartimento di ingegneria dell’informazione all’università Federico II di Napoli, definisce questa particolare forma di digital divide un «problema culturale» che investe anche le piccole e medie imprese meridionali. E pensare, osserva, che «gran parte del Mezzogiorno ha una buona copertura di rete, talvolta addirittura migliore di quella di alcune regioni del Centronord».

Allora dov’è che nasce il divario?

«Dalla scarsa propensione al digitale delle amministrazioni periferiche, come Comuni e Asl, e delle Pmi meridionali. Queste ultime, in particolare, nel nostro Paese fanno prevalere la logica del prezzo su quella dell’investimento in innovazione».

C’è anche una popolazione poco avvezza alla tecnologia. L’Istat certifica che al Sud il 40% dei cittadini non ha un pc o un tablet…

«Se lo Stato ha un approccio conservatore sull’innovazione questa verrà portata avanti solo dal privato. Ne consegue che lì dove l’economia privata è più forte, cioè nel Centronord, si avrà anche una popolazione più competente in ambito digitale. Al Sud si fa più affidamento sul pubblico, che però ha una visione vecchia dell’informatica, di mero backoffice dei processi burocratici, legati alla carta… Se lavoro e vivo in un contesto dove il pc è raro perché dovrei comprarlo? Continuerò sempre a percepirlo come uno strumento ostile. Le faccio un esempio…»

Prego…

«San Giovanni a Teduccio, a Napoli, è uno dei principali hub tecnologici del Paese. Ospita, fra le altre cose, la Apple developer academy. Ecco nello stesso quartiere c’è un ufficio postale dove ogni giorno decine di persone fanno la fila per la pensione, un vaglia, un pagamento. E’ un’immagine che lascia perplessi, perché si tratta di operazioni che potrebbero essere fatte tramite app senza avere chissà quale competenza. I cittadini non sono portati ad accettare un passaggio al digitale»

Lo Stato cosa potrebbe fare?

«Dare l’esempio. Imporre innovazione e digitalizzazione nei processi interni ed esterni. Le ultime finanziarie, se possibile, prevedono invece norme che riducono l’acquisto in informatica, proprio per il problema di mentalità vecchia di cui le parlavo. Pensiamo alla gestione dell’epidemia: è assurdo che le regioni non potessero accedere a un sistema di big data per avere il polso di quanto avveniva negli ospedali e nelle Asl»

E la domanda dei cittadini, invece, come si può stimolare?

«Magari defiscalizzando, riducendo gli oneri dell’Iva per chi compra un pc, un tablet e così via. Avere più persone competenti sul digitale fa calare i costi degli enti pubblici»

La scarsa attitudine di parte degli italiani all’innovazione è la stessa che fomenta sospetti sul 5G?

«Sì, anche se in quel caso ci sono anche responsabilità di alcuni amministratori locali che fanno da cassa di risonanza a paure immotivate, figlie della mancanza di conoscenza. Il 5G è una tecnologia sicura e, soprattutto, non sperimentale. Per cui non dobbiamo andare a testare se produca effetti nocivi alla salute. E’ un’incredibile occasione di sviluppo e modernità. Poi è chiaro, servono enti che assicurino il rispetto delle regole. Sta allo Stato rassicurare la popolazione, informandola sul mezzo e sui sistemi di controllo»

Si lancia spesso l’allarme sull’analfabetismo digitale. E’ un problema che ravvisa nella sua attività di docente?

«I giovani le competenze le hanno, ma spesso, sono minime, mentre sarebbe necessario che fossero più elevate, a prescindere dal percorso formativo scelto»

Ci sono responsabilità del sistema scolastico?

«Certo. Il Piano nazionale scuola digitale è rimasto lettera morta e questo perché mancano competenze specifiche nel sistema dell’istruzione. Del resto la conoscenza del digitale e il suo utilizzo sono discipline che hanno uno spazio risibile durante il percorso di formazione dei docenti»

Siamo indietro anche sull’Agenda digitale?

«In questo ambito c’è un paradosso: le regioni, mediamente, stanno più avanti dello Stato centrale. Sinora la maggior parte del lavoro è stato fatto sul fronte delle infrastrutture digitali, ma non possiamo fermarci: bisogna puntare su machine learning e intelligenza artificiale in ogni ambito, dal traffico, alla sanità, alla sicurezza. Serve maggiore coraggio, per i cittadini e per stimolare un circolo virtuoso che porti le imprese a spingersi ancora più in là»


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