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È chiaro che l’obiettivo per tutti oggi deve essere la riapertura delle scuole a settembre. Non è certo tempo di polemiche. Tuttavia l’ interesse generale, risvegliato dopo anni di indifferenza, non può limitarsi alla riapertura. La scuola italiana è stata considerata troppo a lungo una spesa da ridurre e quindi si è arrivati all’appuntamento con il coronavirus con le pesanti tare ereditate dal passato.

Innanzitutto gli italiani sono fra gli ultimi in Europa per livelli d’istruzione e fra i giovani siamo penultimi, davanti solo alla Romania per numero di laureati, fermi al 27,6% del totale dei giovani al di sotto dei 34 anni, contro obiettivi europei del 40%.

IL PREZZO DEI TAGLI

Ciononostante il tasso di occupazione dei ragazzi con un diploma o una laurea in Italia si ferma, secondo l’Istat, solo al 56,5% del totale, contro una media europea dell’81,6%, e ancora una volta questo dato medio italiano nasconde una forbice insostenibile fra Nord e Sud. Le possibilità per un giovane meridionale diplomato o laureato di trovare un lavoro adeguato al proprio titolo di studio si dimezza rispetto ai colleghi del Nord. I dati dell’Invalsi, cioè dell’Agenzia che valuta la qualità dell’apprendimento dei nostri ragazzi, sono ancora più netti, arrivando nel Rapporto 2019 a ritenere che gli allievi giunti al diploma senza aver raggiunto la sufficienza nell’apprendimento dell’italiano siano il 22% nel Nord-Ovest, ma arrivino alla metà in Calabria, Sicilia e Sardegna.

È quindi prioritario riaprire le scuole, ma anche domandarsi cosa e come si insegna dentro quelle mura. Per questo la riapertura, necessaria per dare un segno a tutto il Paese che si vuole e si deve riprendere la quotidianità perduta, comporta una riflessione aldilà del 14 settembre, interrogandoci tutti su quale ruolo assegnare alla scuola italiana nello sviluppo di tutto il Paese. Ricordo che nel 2011-2012, mentre tutti investivano per uscire dalla prima grande crisi della globalizzazione e nel contempo si affrontava il grande salto tecnologico dal 3G al 4G, cioè come dire dalle telecomunicazioni a internet, l’Italia – oberata di debiti, con lo spread a 550 – tagliava in educazione e ricerca, con il risultato che dopo pochi anni siamo ultimi nelle classifiche europee, dietro la Romania, per competenze digitali.

IL TEMPO PERDUTO

Oggi ci troviamo in una eguale situazione, dove si sommano una grande crisi globale e un salto tecnologico senza precedenti, raffigurabile nel passaggio tra 4G a 5G, dove sulla rete di internet potranno correre milioni di dati per milioni di utenti, così da poter gestire in tempo reale, ad esempio, tutte le attività di un intero sistema sanitario o di una grande area metropolitana.

Per poter recuperare il tempo perduto o almeno rimanere agganciati al treno dello sviluppo, bisogna investire massicciamente in competenze, quindi sulle conoscenze e le abilità delle persone, non solo dei ragazzi, ma anche di noi stessi, in una visione dell’educazione che diventi lunga tutta una vita e in questo grande investimento, vitale per riaccendere prospettive di sviluppo per tutti noi, bisogna necessariamente tener conto delle differenze che si sono accumulate in questi anni fra chi vive nelle diverse parti del Paese.

LE RISORSE UE

Le risorse europee, che ogni giorno sembrano piovere su di noi, devono quindi essere investite in un piano poliennale sulla formazione delle persone, partendo sicuramente dalla necessità di far ripartire il carro della scuola italiana, ma anche domandandoci in quale direzione dobbiamo muoverci per dimostrare innanzitutto a noi stessi che il lato meridionale dell’Unione europea non è un peso ma un’opportunità per lo sviluppo di tutta Europa.


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