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Oltre un milione di famiglie vive con il solo Reddito di cittadinanza, circa 2,5 milioni di persone, di cui il 60,6% si trova al Sud. A disegnare la mappa della povertà è la Corte dei Conti nella relazione annuale: il 36% delle famiglie che ricevono il Reddito di cittadinanza è monoreddito e l’88% ha un capofamiglia con cittadinanza italiana.

«A un anno dal suo avvio, si può affermare che tale strumento ha contribuito al contrasto della povertà assoluta, che potrebbe essersi ridotta di 1,5 punti (dall’8,4 al 6,9%)», evidenzia la magistratura contabile.

Però, è deludente il risultato dal punto di vista della creazione di nuovi posti di lavoro: «I dati a disposizione, comunicati dall’Anpal Servizi, evidenziano che alla data del 10 febbraio 2020, i beneficiari del RdC che hanno avuto un rapporto di lavoro dopo l’approvazione della domanda sono circa 40 mila», evidenzia la Corte dei Conti.

I giudici evidenziano altri due temi che il nuovo governo Draghi sarà chiamato ad affrontare: sanità e welfare, in particolare servizi per l’infanzia.

«Occorre – si legge nel report – far fare alle politiche per l’infanzia il necessario salto di qualità, ampliando l’offerta dei servizi socioeducativi, che in Italia appare limitata, soprattutto in alcune realtà territoriali».

Il riferimento è, ovviamente, al Sud dove gli asili nido, ad esempio, sono un miraggio. A Trieste, nel 2019, la spesa pro capite per asili e servizi per l’infanzia è stata di 185,96 euro, a Firenze 127,23 euro, a Bologna 122.53 euro a Milano di 115,94 euro.

Per trovare la prima città del Sud con almeno 200mila abitanti bisogna scorrere la “classifica” sino all’undicesimo posto, dove c’è Bari con i suoi 72,75 euro di spesa pro capite, segue Napoli con appena 36,22 euro, poi Messina con 3,95 euro. Tra Trieste e Messina c’è una differenza di circa 182 euro, una sperequazione figlia di una iniqua ripartizione delle risorse statali tra i Comuni italiani, come evidenzia il report pubblicato dal portale OpenPolis.

E sulla sanità, il divario Nord-Sud si sta ampliando: «L’emergenza che il Paese sta affrontando – scrive la Corte dei Conti – ha reso più evidente, ove ve ne fosse stato bisogno, l’importanza di poter contare su una assistenza sanitaria efficiente e in grado di rispondere a minacce rese più insidiose da un sistema economico sempre più aperto e globalizzato».

«Il riequilibrio finanziario che si è venuto a consolidare negli ultimi anni – si legge – non ha impedito il manifestarsi di criticità come le differenze nella qualità dei servizi offerti nelle diverse aree del Paese; le carenze di personale dovute ai vincoli posti nella fase di risanamento, ai limiti nella programmazione delle risorse professionali necessarie ma, anche, ad una fuga progressiva dal sistema pubblico; le insufficienze dell’assistenza territoriale a fronte sia dell’epidemia sia del crescente fenomeno delle non autosufficienze e delle cronicità; il lento procedere degli investimenti, sacrificati a fronte delle necessità correnti».

«La diffusione» del Covid «ha prodotto gravi tensioni sul nostro sistema sanitario nazionale, regionalizzato con la riforma del 2001 del Titolo V della Carta costituzionale, che mostra grandi differenze nei livelli dell’assistenza agli utenti», ha rincarato la dose il procuratore generale, Angelo Canale. I giudici parlano sempre del Sud, storicamente penalizzato da una iniqua ripartizione dei fondi, basti pensare che la spesa per investimenti è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno.

In termini pro-capite, significa che mentre l’Emilia Romagna ha potuto investire 84,4 euro pro capite per i suoi ospedali, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro.


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