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Il governatore della Campania De Luca

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Il numero dei documenti che propongono un progetto per la Next generation UE, che provengono dal Mezzogiorno o da studiosi che se ne occupano, non si sa più quanti siano. 

Ogni associazione, dalla più titolata come Svimez, alla più sconosciuta, ogni raggruppamento politico, sindacato, associazione di imprese, ha presentato il proprio piano per il Recovery Plan. Anche se tale vivacità dimostra un diverso approccio ed un Mezzogiorno che comincia a svegliarsi dal torpore atavico.
E si capisce che tutto ciò avvenga, considerata la dimensione delle risorse disponibili ed una progettualità che va verso il 2026, perlomeno, ma che darà la linea per l’Italia del 2030. 

Ovviamente tale pluralità di interlocutori non può che spingere il Governo ad andare avanti per la sua strada. Ed il rischio è che in assenza di una voce unica la strada sia quella famigerata della locomotiva e dei vagoni. Per cui ci si perda su Mezzogiorno, turismo ed agricoltura, come si era rischiato con il vecchio Recovery.

In realtà il Mezzogiorno prima dell’Unità aveva una sua identità perché il Regno di Napoli, con tutti suoi problemi e le sue carenze, aveva una sua dimensione unitaria, anche in presenza di una Sicilia, che è stata sempre molto autonoma ed indipendente.

Oggi, invece, questa area non ha una leadership riconosciuta, pur se Napoli continua a ritenersi capitale del Regno, anche se qualcuno ogni tanto ricorda a questa Regione che il Regno era delle due Sicilie, non delle due Campanie.

In realtà ormai le Regioni vanno da anni a questa parte in ordine sparso. Mentre sarebbe necessaria una unica identità che si contrapponesse ad un Nord, che invece ha ritrovato una identità comune, per cui anche se con differenti gestioni politiche, per esempio tra il gruppo tosco-emiliano e quello lombardo-veneto, poi alla fine riescono ad avere un progetto unitario. 

Per cui quando si va a parlare di Expo, il Nord fa gruppo e la Moratti allora sindaco di Milano si presenta a Parigi insieme a Prodi, al presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, ma anche al governatore Roberto Formigoni, al sottosegretario Bobo Craxi. Così come all’allora presidente diessino della Provincia Filippo Penati.

Allora, oggi più che mai, l’esigenza di una identità comune, di uno stesso modo di sentire, per una parte che è stata lasciata periferica e marginale, diventa sempre più importante.

Una realtà di 21 milioni di abitanti con un territorio pari al 40% del territorio nazionale, con regioni medio piccole come Calabria (1.947mila abitanti), Sardegna (1.600), Abruzzo (1.293), Basilicata (553), Molise (300) ed altre come Campania (6.000), Sicilia (5.000), Puglia (4.000) con dimensioni pari a molte nazioni europee.

Evidentemente tale deriva dei tanti capetti meridionali è conseguenza, oltre che di un fatto storico anche della modifica del titolo quinto della Costituzione, che ha regionalizzato moltissime delle competenze delle varie realtà.

E se una tale evoluzione poteva essere interessante per regioni già sufficientemente sviluppate, per un’area come quella del Mezzogiorno, che ancora deve passare dalla fase dell’industrializzazione, nella quale il manifatturiero è molto contenuto, è stato un danno incredibile. Per questo la dimensione di un Mezzogiorno unico, con una sola voce, che parli al Paese può diventare estremamente importante.

Quindi il tentativo come quello di De Luca di confrontarsi con il Governo come raggruppamento di regioni è un passo importante che non bisogna abbandonare. Aldilà delle appartenenze politiche che vedono le tre regioni demograficamente più importanti Sicilia, Campania e Puglia con una popolazione complessiva di 15 milioni di abitanti su oltre 20 complessivi, guidate due dal centro sinistra ed una dal centro destra, ma che devono marciare unite, perché il loro destino, aldilà della volontà dei Governatori pro-tempore, è lo stesso. Ma anche associazioni, studiosi, fondazioni dovrebbero tentare di parlare con voce unica ed evitare protagonismi dannosi.
Non servono tanti documenti, né indicazioni varie che spesso non si confrontano con i numeri, pieni di buone intenzioni e di parole chiavi come green, eco-compatibilità, digitale, parità di genere, rivoluzione tecnologica e tanta resilienza.

Abbiamo bisogno di numeri, tanti numeri, quanti occupati in più e dove, in agricoltura, nel manifatturiero, nei servizi, nel turismo. Meno analisi sociologiche e più approcci quantitativi. Meno filosofia-politica e più conti della serva. Per non essere accusati, come fece Giovanni Agnelli nei confronti di De Mita, di essere intellettuali della Magna Grecia.

Perché il rischio che si corre è che il flusso migratorio di oltre 100.000 persone l’anno formate, che abbandonano questi territori, aumenti. Con un costo di 20 miliardi l’anno a carico del Mezzogiorno. E che quel processo di desertificazione demografica, ma anche soprattutto delle aree interne, iniziato ormai da parecchi anni e che non accenna a fermarsi, si intensifichi.


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