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UN TEMPO l’inflazione era una cosa cattiva. Poi la cattiveria passò dalla parte della deflazione, il “canarino nella miniera” che rivela la debolezza della domanda e spegne la voglia di spendere. A quel momento tornò la voglia di inflazione (con juicio) e andavamo spiando i dati sui prezzi, sperando che l’aria della congiuntura si facesse più respirabile, per noi e per il canarino.

Quando, quattro anni fa, ci fu un primo balzo verso l’alto dell’inflazione, in Italia e in Eurozona, quel balzo fu salutato come una buona notizia. «Come una cerva anela ai corsi d’acqua» (Salmo 42), i Paesi in preda alla deflazione anelavano ormai all’inflazione. Le “buone” notizie continuarono poi, e l’inflazione salì ancora, per l’Italia e per l’Eurozona, verso quel 2% che rappresenta il “Sacro Calice” delle Banche centrali (che anelano al 2 e non allo zero, perché gli indici non tengono sufficientemente conto dei miglioramenti di qualità e quindi quel 2 comporta in verità prezzi stabili).

Innestiamo l’acceleratore della macchina del tempo e arriviamo al 2021. Subito prima dell’inizio dell’anno – dicembre 2020 – la temperatura dei prezzi era gelida: in Germania e in Italia l’inflazione era sotto zero, e in America poco sopra l’1%. C’era di nuovo paura della deflazione. Oggi, secondo gli ultimi dati, la dinamica dei prezzi è salita: in Germania siamo passati dal -0,6% di fine 2020 al 2,5% (orrore!) del giugno 2021; in Italia dal -0,3% all’1,3%, e in America addirittura dall’1,3% al 5%!

Insomma, “State attenti a quello che desiderate, perché potrebbe avverarsi”, recita una vecchia battuta. L’inflazione è arrivata. La risposta dei corsi delle materie prime alla ripresa in corso è stata forte. Gli ultimi dati danno, per le materie di base non-oil, un +28% sull’anno, e addirittura un +79% per il greggio WTI. E ora che l’inflazione arriva, arriva anche la paura opposta a quella di prima. Ma non c’è da aver paura. Aumenta la domanda, ed è bene, ma aumenterà anche l’offerta, dopo che fattori temporanei di blocco saranno stati superati.

C’è l’inflazione da domanda e l’inflazione da costi. Ma c’è anche una contro-inflazione: si continuano a sottovalutare i potenti fattori strutturali – diversi da domanda e costi – che tengono un coperchio sui prezzi. Fattori che vanno dalla globalizzazione all’immigrazione, dalle vendite online ai mille modi – molti in atto e molti ancora in potenza – che consentono alla rivoluzione digitale di trovare modi più economici per produrre beni e servizi e tengono un coperchio sugli aumenti dei prezzi.

La risalita dell’inflazione fa temere a molti una risalita dei tassi, che sarebbe pericolosa in un mondo che si è (giustamente) indebitato per contrastare, attraverso deficit e debiti pubblici, gli urti della crisi da coronavirus. Le Banche centrali, tuttavia, non sembrano avere fretta di alzare i tassi-guida, anche se alcune di queste (ma non le principali) hanno proceduto a qualche timido ritocco. Ma guardiamo ai tassi a lunga di mercato, che sono influenzati sì dalle Banche centrali, ma anche dagli investitori privati. La reazione dei tassi al balzo dell’inflazionè stata modesta. L’aumento dell’inflazione è stato di centinaia di punti-base (centesimi di punto) dalla fine dell’anno scorso, ma solo di qualche decina di punti-base per i tassi dei titoli pubblici a dieci anni (vedi il grafico relativo agli Usa). Si vede anche come, nell’ultimo periodo, la relazione è stata addirittura inversa: in America saliva l’inflazione e scendevano i tassi. Un andamento, questo, che si porta dietro una diminuzione dei tassi reali di interesse: questi sono nettamente negativi, in America, in Germania e in Italia, e sono quindi di conforto alla ripresa. Insomma, i mercati sembrano convinti che l’eccesso di risparmio nel mondo, che pure si sta assottigliando con l’incedere della ripresa, non diminuirà tanto da mettere in pericolo la stabilità dei prezzi, la cui dinamica è destinata a rallentare.

Anche la ripresa, che per ora è vigorosa, rallenterà, se non altro perché lo stimolo di bilancio sarà meno forte: i deficit pubblici continueranno, ma saranno meno elevati, e una diminuzione dei deficit equivale a una sottrazione di domanda. A proposito di deficit pubblici, si nota un complesso di colpa che comincia a serpeggiare nell’animo dei benpensanti. I debiti pubblici sono aumentati (ed è vero) e ora bisogna pensare a tirare la cinghia per farli diminuire. Ma non c’è alcun bisogno di tirare la cinghia, c’è solo bisogno di tirare la crescita, perché quella è la via maestra per ridurre il peso del debito. Peso che, si dice, è specialmente gravoso per l’Italia, dove il rapporto debito/Pil va al 160%. Ma questa percentuale non ha molto senso: bisognerebbe togliere quella quota del debito che è detenuta dalla Banca centrale. Titoli, questi, che non dovremo mai restituire, a parte le miserrime tecnicalità della scadenza e del rinnovo. Il complesso di colpa di cui sopra sta nel fatto che abbiamo fatto ricorso alla creazione di moneta per sostenere l’economia.

La cosa odora male. Come, basta far lavorare il torchio – fisico od elettronico – per spargere soldi su famiglie e imprese? E cosa succede se diventa un’abitudine? Meglio spegnere subito queste braci di irresponsabilità e ricordare al popolo che i debiti bisogna pagarli. Ma quello che abbiamo fatto lo aveva già raccomandato Keynes nel secolo scorso, con le famose parole nel libro 3°, Capitolo 10, Sezione 6 della “General Theory of Employment, Interest and Money”; scrisse: “Se il Tesoro dovesse riempire vecchie bottiglie con banconote, sotterrarle a profondità adeguate in miniere di carbone in disuso, riversare nelle miniere rifiuti urbani fino alla superficie, e lasciare poi alla libera iniziativa, sulla base dei consolidati principi di laissez faire, il compito di dissotterrare le banconote (dopo aver indetto una gara per le concessioni di sfruttamento di quel territorio), la disoccupazione non aumenterebbe più e, con l’aiuto delle successive spendite, il reddito reale e la ricchezza della comunità sarebbero probabilmente molto più elevati di quanto si darebbe altrimenti. Certamente, sarebbe più sensato costruire case o altro. Ma, se ci sono difficoltà politiche o pratiche nel farlo, quel che si è detto sopra sarebbe meglio che niente”.

Dovremmo essere fieri di aver seguito, nelle eccezionali circostanze di questa crisi, l’insegnamento di Keynes, invece di sentirci colpevoli per aver fatto ricorso a migliaia di miliardi di “soldi dall’elicottero” (per usare la metafora di Milton Friedman – e in effetti sarebbe più facile buttare soldi dall’elicottero che riempire bottiglie di banconote…).


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