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Il ballo dell’orso sull’orlo del burrone. I mercati italiani hanno ricominciato ad aver paura. L’indice di Borsa è sceso dell’1,03% e lo spread è tornato a salire. Ha chiuso a 157,9 punti dopo una punta a oltre 166. Venerdì si era fermato a 149. Per capire quello che è successo basterà ricordare che l’anno scorso all’insediamento del governo Draghi era precipitato a 92 punti e il rendimento dei Btp decennali era fermo allo 0,8%, Oggi è arrivato all’1,9% in un crescendo di preoccupazioni che i partiti non colgono. O non vogliono cogliere.

Sul caro-bollette è partito il pressing sul governo chiedendo un nuovo “scostamento” di bilancio che vuol dire fare nuovo debito. Come se quello che abbiamo non bastasse. Nessun leader di partito che sembra rendersi conto di un’amara verità. A marzo la Bce stringerà i cordoni anche se ieri Christine Lagarde ha cercato di smorzare il pessimismo dicendo che niente è ancora deciso. L’età d’oro delle emissioni allo 0,1% sarà un ricordo. Per capire basterà ricordare che l’intero fabbisogno statale del 2020 e 2021, (250 miliardi) è stato finanziato dalla Bce. In aggiunta c’è la metà delle esigenze di cassa della pubblica amministrazione italiana del 2022, arrivando a un totale di 300 miliardi.

Tanto valgono gli acquisti di debito italiano da parte della Bce con il programma che terminerà a marzo. Se nel 2020 e 2021 l’intero fabbisogno è stato “coperto” da Francoforte, nel 2022, con la fine del piano straordinario, quell’assicurazione è stimata in netto calo: “Ben oltre la metà” dei quasi 100 miliardi di fabbisogno pubblico del 2022, aveva detto il direttore del debito pubblico del Mef, Davide Iacovoni, a dicembre. Ora l’ipotesi di una stretta anticipata fa ballare i numeri. E mette di fronte alla realtà di acquisti netti che si ridurrebbero a zero nel 2023. Nessuno che se ne renda conto. I partiti preferiscono ballare sulla musica del denaro facile senza vedere che la festa sta per finire. Certo, la Bce continuerà “almeno fino a tutto il 2024” a rifinanziare a scadenza i bond che ha in pancia, un cuscinetto anti-spread.

Un report di Banca Intesa meno di un mese fa stimava emissioni lorde complessive di debito pubblico italiano nel 2022 per circa 450 miliardi. Tolti i titoli a breve, si scende a circa 318 miliardi. Sottraendo ancora le emissioni che sono solo ‘rifinanziamento’ di debito che arriva a scadenza, Iacovoni aveva quantificato a dicembre le emissioni nette in circa 80-90 miliardi. Il grosso delle emissioni nette, secondo lo studio di Intesa, è sulla prima parte dell’anno: dopo i 7 miliardi di Btp trent’anni di gennaio, con oltre 12 miliardi netti già andati in porto, a febbraio, l’11 e il 25, sarà la volta di due aste a medio-che assorbiranno buona parte dei ben 33 miliardi. L’assicurazione sulla sostenibilità è data da un costo del debito ben inferiore alla crescita del Pil. I tassi di un decennio fa sono preistoria. Ma i margini di bilancio si restringeranno, perché lo 0,1%, record negativo raggiunto a fine 2021, sarà difficile da mantenere in un ambiente di tassi che risalgono.

La realtà dei numeri è molto cruda. La Bce detiene il 25% del nostro debito.  Poco meno del 30% è in mano a investitori stranieri. Il resto sta in Italia. A cominciare da Generali che ne possiede per 60 miliardi. Complessivamente le banche hanno investito su titoli di Stato l’11% dell’attivo. Vuol dire che qualunque scossone sui Btp rischia di mettere in crisi il sistema. Un pericolo di cui nessun partito vuole avere percezione. Sembra di ripercorrere il sentiero del 2011. Ad aprile si aggirava ancora intorno a 100 punti. A novembre era volato a 575 punti.

Sarà decisivo il consiglio direttivo della Bce di marzo. Il dibattito è vivace il governatore olandese Kllas Knot aspetta un rialzo dei tassi nel terzo trimestre, che implicherebbe la chiusura anticipata degli acquisti di debito da parte della Bce. Francois Villeroy de Galhau, il governatore della Banca di Francia, più cauto, dice che si deciderà sulla base “degli ultimi dati, previsioni e sviluppi geopolitici”, con la crisi ucraina che alza i prezzi energetici cui imputare metà della fiammata inflazionistica. Per Goldman Sachs, invece, due rialzi, dello 0,25% a settembre e dicembre sono probabili ed eserciteranno “forte pressione” sui titoli di Stato come i Btp il cui spread può allargarsi fino a 175, tenuto a bada dalla forte crescita dell’economia italiana. Altri, come Frederik Ducrozet, di Pictet, ricordano che l’aggiustamento degli Spread non è lineare, e l’area rossa per l’Italia sarebbe sta a 250 punti base. Di certo c’è che le banche centrali stanno mettendo fine a oltre un decennio di politiche espansive.


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