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La spaccatura del Paese, con un ulteriore allargamento della distanza tra il Nord e il Sud, rischi per la competitività economica del Paese: sono gli scenari più evidenti cui conduce il percorso verso l’autonomia differenziata incardinato con l’approvazione, il 15 marzo in Consiglio dei ministri, del testo definitivo del disegno di legge delega Calderoli.

Ma accanto a questi se ne apre un altro – che li ingloba ed esacerba –  che porta «ad una riorganizzazione all’italiana» del sistema istituzionale, con un «Grande Nord autonomo» e uno Stato centrale praticamente «fantasma».

E’ il quadro evocato dal presidente della Svimez, Adriano Giannola, nel corso dell’incontro sul tema “Politiche pubbliche e geografia istituzionale – Autonomia differenziata”, organizzato dall’associazione in collaborazione con il Cnel, cui hanno preso parte Luca Bianchi, direttore generale di Svimez, Massimo Villone, professore emerito di Diritto costituzionale della “Federico II” di Napoli, Giuseppe Roma, segretario generale dell’Associazione per le Città Italiane Rur (Rete Urbana delle Rappresentanze), Alessandro Bianchi, consigliere di Svimez, Giordana Pallone, consigliera Cnel e coordinatrice area Stato Sociale e diritti Cgil, Enzo Bianco, presidente del Consiglio Nazionale dell’Anci, e Vito Grassi, presidente del Consiglio delle Rappresentanze Regionali e per le Politiche di Coesione Territoriale e vicepresidente di Confindustria.

Giannola ha posto l’attenzione su quello che considera un processo irreversibile, «non emendabile dal Parlamento», che di fatto ne resta ai margini. Si tratta, ha sottolineato, di «una legge rafforzata»: «La reversibilità potrebbe esserci con una nuova intesa tra Stato e Regione, ma è difficile che una Regione rinunci all’autonomia», ha spiegato Villone, evidenziando la possibilità «di un effetto domino che metterebbe a rischio l’unità del Paese, mentre il divario tra Sud e Nord inevitabilmente si allargherebbe».

Giannola ha poi indicato i rischi che derivano «dall’astuzia di Calderoli» nel congegnare il meccanismo a due tempi su cui si regge il provvedimento, sul quale ha sollevato dubbi in termini di costituzionalità, oltre alla dubbia costituzionalità di un’autonomia differenziata che di fatto arriva a federalismo incompiuto. Il primo tempo, ha sostenuto, consente all’autonomia di «procedere come un treno», arrivando in “stazione” entro un anno. Il secondo invece è legato alla definizione dei Lep, per cui le materie che li prevedono – sanità, istruzione e mobilità pubblica – non possono essere oggetto delle pre-intese, e quindi finché non si sarà provveduto in tal senso e sia stato costruito «l’armamentario finanziario necessario» non potranno essere trasferite.

Ma le altre sì, «con le risorse, il personale e le salmerie che stanno dietro queste funzioni, e con il riferimento alla spesa storica, che è quello che interessa alle Regioni». «La polpa economica, che interessa davvero le Regioni, è la rete delle infrastrutture che è ciò che abilita una Regione a farsi Stato: la gestione di aeroporti, porti, autostrade, protezione civile. Questo è l’obiettivo vero, il resto è demandato a futura memoria, o ai Dpcm di un premier che si prenderà la responsabilità di definire entro un anno quello che non è stato definito in 20 anni, cioè i Lep».

Le rassicurazioni date da Calderoli al presidente di Confindustria, che aveva evidenziato come il sistema imprenditoriale non avrebbe retto di fronte alla necessità di confrontarsi con tante burocrazie diverse, secondo Giannola, poggiavano sull’articolo 117, comma 8, della Costituzione, cioè sulla possibilità per le Regioni di trovare intese per costituire organismi comuni: «È il passaggio immediatamente successivo per chi razionalmente vuole l’autonomia. Nei fatti il ministro ha detto a Bonomi, non ti preoccupare, tempo un anno le Regioni, senza aver fatto la secessione, attraverso le intese faranno un “grande Nord” che diventa autonomo, e intanto tramite le intese con il governo centrale hanno già ricevuto la sovranità sulle infrastrutture. La polpa è tutta in questo nuovo grande assembramento che mette le Regioni alla pari dello Stato». «E’ un mistero come in un simile contesto si possa pensare al presidenzialismo, tanto più che – ha detto Giannola –  quello che resta è uno Stato fantasma, che governa sui sette colli di Roma, mentre la sovranità vera è altrove».

C’è poi il nuovo scenario geopolitico ed economico da tener presente e che fa emergere le contraddizioni di questo processo: è venuto meno il modello mitteleuropeo con cui le Regioni, ha sostenuto Giannola, «hanno condizionato il Sud» anziché puntare «sul rafforzamento del Mediterraneo». Anche l’Europa, «dopo 20 anni ha scoperto che il Mediterraneo è importante, che il porto di Gioia Tauro e Augusta sono la nuova Rotterdam da qui a 20 anni, perché è con l’Africa e il Medio Oriente che sono i marcati e la demografia del futuro l’Europa deve fare i conti».  «Bisogna portare il dibattito in Parlamento perché questi temi possano arrivare all’attenzione dell’opzione pubblica e far emergere le diverse sensibilità nella coalizione», ha avvertito Villone.

Luca Bianchi ha posto in evidenza i rischi che arrivano da quella che ha definito «un’attribuzione delle competenze a la carte», slegata dalla “virtù” dimostrata in quell’ambito su cui si richiede la competenza: «Potremmo arrivare al paradosso che una Regione commissariata come la Calabria potrà chiedere l’autonomia sulla sanità. Avremo tante ragioni a statuto speciale, ognuna speciale a modo suo. Altro punto importante – ha aggiunto – è il meccanismo di finanziamento: si stabilisce la spesa su base della spesa storica e si stabilisce su quel valore finanziario a quanto corrisponde il gettito Iva di quella regione. Si tratta di un federalismo senza responsabilità. Che riduce i Lep a un’esigenza burocratica, senza peraltro prevederne il finanziamento,  spacca il Paese e cristallizza il divario Nord-Sud quando l’Europa ha messo in campo con il Next Generation Eu un modello cooperativo fondato sul principio che la crescita del Continente si ottiene solo riducendo i divari».

Per Giuseppe Roma «il rischio che stiamo correndo è enorme: perché il problema non è solo una doverosa difesa del Mezzogiorno, ma la difesa del Paese. La frammentazione burocratica rende il sistema centrale meno efficiente, l’Italia diventerà più debole, non governerà i processi economici e ci sarà una frammentazione che renderà meno efficienti i settori pubblici». E questo, ha sottolineato, di fronte a una geografia economica che è cambiata, «l’asse portante è diventato Bologna-Milano, il sistema veneto della piccola impresa non sta reggendo alla dimensione competitiva, e comunque la forza produttiva, anche nelle regioni più ricche, si concentra in pochi territori». «Quindi – ha puntualizzato Roma – il nostro sistema istituzionale deve andare dietro a questa concentrazione o avere una qualche funzione di riequilibrio?».

Vito Grassi ha posto la questione soprattutto su un piano di competitività  globale, con la Cina e usa Europa hanno messo sul piatto cifre stratosferiche sulla sfida dell’industria, mentre l’Europa fa fatica a trovare un strategia unitaria. «L’Italia da sola non riesce a competere – figuriamoci  un singolo territorio –  ha bisogno di un’Europa sempre più compatta che condivida politiche non solo nelle condizioni di emergenza di emergenza, ma di scelte strategiche condivise sulle produzioni da preservare, sull’energia, sulle produzioni che ci svincola dipendenza di altre grandi potenze».

Grassi ha quindi indicato i paletti che l’associazione degli industriali ha posto di fronte un percorso che si ritiene legittimo in quanto previsto dalla Costituzione: «Non deve compromettere l’unità nazionale, e qui si passa per l’individuazione delle materie: quelle individuate  20 anni fa richiedono una revisione, bisogna escludere, ad esempio, le politiche commerciali dell’Unione, le grandi reti energetiche e di comunicazione, non possono essere declinate da campanilismi regionali ma asservite a strategie e scelte comuni, e condivise con il mercato unico europeo».

C’è poi il tema della finanza pubblica: «La riforma non deve comportare risvolti negativi» su questo fronte: «Il passaggio al criterio del costo storico a fabbisogni ottimali calcolati per benchmark implica lo stanziamento di risorse ingenti per consentire alle Regioni meno avanzate di affrontare con successo la sfida per l’ottimizzazione. Ma veramente pensiamo di farlo a invarianza dei saldi di finanza pubblica? Si può affrontare con la sola logica delle quote di compartecipazione a tributi nazionali che possono variare di anno in anno nella legge di Bilancio? Il fondo di perequazione non può essere asservito al gettito fiscale: se l’obiettivo è quello di ridurre i divari – e questo è l’input che l’Italia ha ricevuto dall’Europa e finanziamento ricevuto con il Pnrr lo sottolinea -, non possiamo legare all’annualità  fiscale la scelta e intervenire o meno».


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