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Marta Cartabia, ministro della Giustizia, e Mario Draghi

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“PER forza d’inerzia, alla fine si finirà su Draghi”, spiega un parlamentare forzista di lungo corso.

Non è il percorso migliore. Ma in una situazione come l’attuale la possibilità che si possa arrivare ad una intesa che porti all’elezione del presidente della Repubblica al primo scrutinio come segnale di responsabilità e di compattezza, è assai remota. D’altro canto, la crisi di sistema che affligge l’Italia è tale da non prevedere soluzioni indolori per questo passaggio delicatissimo. La priorità, come già rilevato, è mantenere la maggioranza di larghe intese che ha governato per un anno, che è priva di alternative, e che è l’unica in grado di garantire il conseguimento di risultati effettivi nella lotta alle emergenze vaccinali ed economiche.

Proprio per salvaguardare la condizione politico-istituzionale più importante, occorre che l’eventuale trasloco di Mario Draghi da palazzo Chigi al Quirinale avvenga seguendo una regia condivisa, mantenendo l’equilibrio che si è realizzato grazie all’intuizione di un anno fa di Sergio Mattarella. Il che vuol dire – sempre nell’eventualità di Draghi capo dello Stato – che anche il presidente del Consiglio in carica è chiamato in qualche modo a farsi parte della soluzione di quale binario imboccare, d’intesa con i partiti della sua maggioranza, per fare il modo che il convoglio presidenziale (doppio) arrivi a destinazione senza deragliare.

Peccato, come chiunque può capire, che si tratti di un tema che ha sopra impresso il segno del teschio e la dicitura “chi tocca i fili muore”. SuperMario, com’è noto, ha deciso di assumere una posizione, diciamo così, agnostica sulla questione. Nel senso che ha scelto di non farsi invischiare nel ginepraio degli interessi e delle ambizioni dei partiti: sono un civil servant, ha spiegato, un nonno pronto a impegnarsi in qualunque compito le istituzioni mi chiamino. Forse è perché si sente un predestinato; forse perché ha temuto di farsi ingoiare dalle sabbie mobili dei veti incrociati, forse perché la questione è estranea al suo Dna: fatto sta che siamo arrivati alla vigilia delle votazioni dei Grandi Elettori senza che il tema della eventuale “sostituzione” sia stato non solo risolto ma neppure affrontato. Diventando così un macigno talmente grosso da minacciare di ostruire la salita al Colle.

In altri termini, il governo che verrà è diventato un incubo. E il nodo non è più tanto chi lo potrebbe presiedere, perché in ogni caso sarà una personalità non troppo politicamente colorita altrimenti l’equilibrio fragilissimo che c’è salterebbe: la Guardasigilli Cartabia sotto questo profilo appare da tempo in pole position. Quanto piuttosto che tipo di governo si dovrà allestire, con quale caratura. Se cioè dovrà essere un esecutivo politicamente marcato con l’ingresso di personaggi di peso, segretari di partito compresi, magari non tutti. Oppure se dovrà rimanere in qualche misura “neutro” e con connotazione prevalentemente tecnica per consentire di svolgere con mani libere la campagna elettorale del 2023.

È evidente che gli interessi dei alcuni si scontrano con quelli di segno opposto di altri. Matteo Salvini, ad esempio, che si è giocato parecchio con la decisione di sostenere il governo Draghi, ha il massimo interesse a capitalizzare la sua scelta, a questo punto anche attraverso un coinvolgimento diretto nella squadra dei ministri. Mentre Letta e Conte presumibilmente hanno intenzioni opposte.

L’argomento è diventato il core business delle decisioni per il Quirinale: chi sbroglierà la matassa e come? E ancora: Draghi può restare silente in attesa degli eventi, incoronazione compresa? Ma come può agire senza che sfiorando una pagliuzza venga giù tutta la capanna? Come è noto, in politica i tempi sono fondamentali. E perciò il tema del nuovo governo si intreccia con l’andamento degli scrutini. Bisogna procedere millimetro dopo millimetro, con circospezione e accortezza. Finché è in campo la vera o presunta candidatura di Silvio Berlusconi, niente si può fare.

Per come sta andando l’operazione Scoiattolo, non è inverosimile che il Cav si sfili, ma senza indicare una candidatura alternativa. Com’è noto, per il fondatore di FI è impossibile immaginare qualcuno meno degno di lui di regnare sui corazzieri. Immediatamente dopo, prenderà corpo la questione governo-dopo-Draghi. Una matassa come abbiamo visto ultra aggrovigliata che va dipanata entro una scadenza prefissata: giovedì 27 o massimo venerdì 28 prossimi. Ossia alla quarta-quinta votazione, quando il quorum si abbassa a 505 voti. Entro quella data il via libera a Draghi per il Quirinale e la definizione del profilo politico del nuovo esecutivo devono aver preso forma.

Senza un accordo sulla sua successione, SuperMario rischia di non farcela e finire impallinato dai franchi tiratori. Ma se non viene eletto al quarto-quinto scrutinio, la faccenda minaccia di sfuggire di mano e recuperarla potrebbe diventare impossibile. Arriverebbe al Colle un presidente purchessia, frutto di incroci fuori da ogni regia. L’epilogo peggiore, come comprendono tutti. 


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