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Angela Merkel e Ursula von der Leyen

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Sufficienza, distacco e pragmatismo. Con queste tre espressioni è possibile descrivere il ventaglio di reazioni che le istituzioni europee stanno mostrando di fronte all’ennesima crisi politica del nostro Paese.

Utilizzare l’espressione “ennesima” permette di fare immediato riferimento al tema della sufficienza. Da Bruxelles si osserva Roma e si pensa “niente di nuovo sotto il sole”. Siamo di fronte alle solite turbolenze frutto di una transizione politico-istituzionale avviata un trentennio fa e mai portata a termine. Pandemia e crisi economico-sociale ad essa collegata non potevano condurre a nulla di differente. A questo sguardo di accondiscendenza si accompagna anche una dose di benevolenza nei confronti di Roma e un certo grado di resilienza riconosciuta al “paziente italiano”. Il rovescio della medaglia del “sono i soliti italiani” è rappresentato dalla convinzione che l’Italia, comunque, una soluzione la riesca a trovare. In definitiva non saranno affidabili, ma tra fortuna e genio italico, una via di uscita gli italiani la trovano (quasi) sempre.

Anche il distacco in realtà può essere declinato con differenti sfumature. Da una parte vi è una dimensione istituzionale, ben rappresentata dai commenti di von der Leyen. La parola d’ordine è tenersi lontani dalle accuse di ingerenza nelle questioni interne. In secondo luogo, a Bruxelles vi è la convinzione che i cosiddetti antieuropeisti o populisti che dir si voglia, in particolare dopo la sconfitta di Trump e la pessima performance di Johnson su Brexit, siano in una fase declinante, se non di consensi, almeno di intensità nel loro attacco all’Ue. E il calo nei sondaggi di Salvini, privato del suo carburante ideologico (il tema migranti), confermerebbe questa tendenza. Infine, il distacco è rivolto all’inquilino di Palazzo Chigi. Non è giunta alcuna “scialuppa di salvataggio” nei confronti di Conte e questo per una ragione piuttosto chiara: non è il presidente del Consiglio il garante degli impegni europei ed in generale dell’europeismo italiano. La garanzia italiana è ben custodita, ma al Quirinale. Il Conte II ha senza dubbio rappresentato la fine dell’incubo giallo-verde per Bruxelles. Anche nella complessa fase marzo-dicembre 2020, l’ex avvocato del popolo ha mostrato di essere in grado di tenere dritta la barra e il Paese nella scia dall’asse franco-tedesco. Ad un certo punto però Conte ha cominciato a deludere, soprattutto per quello che riguarda il piano di riforme ed investimenti che Roma deve presentare nella versione definitiva entro il prossimo 30 aprile.

Proprio la data chiave di fine aprile permette di entrare nel discorso relativo all’approccio pragmatico da parte delle istituzioni comunitarie. Prima di tutto viene da dire che a Bruxelles si sia deciso di puntare “sull’usato sicuro” e cioè sulla garanzia fornita dal Quirinale. E questo essenzialmente perché dalla presidenza Ciampi in avanti, cioè dal 1999, è il presidente della Repubblica il solo garante rispetto alle fondamentali scelte di politica economica (vedi europea) e di politica estera del Paese. Vi è poi una seconda dimensione che fa capo a tale approccio pragmatico. A Bruxelles si è scelto di non curarsi della forma e di concentrarsi sulla sostanza. In definitiva più che l’esito di politique politicienne della crisi, ad interessare e a preoccupare è il piano di riforme ed investimenti che l’Italia dovrà definitivamente presentare a Bruxelles e che le permetterà di ricevere, nel corso dell’estate, il primo anticipo sui fondi comunitari. Ed è sulle carenze di quel piano che sono oggi puntati gli occhi dell’Ue. Il rischio è che lo sguardo da pragmatico si faccia preoccupato. E questo essenzialmente per due ragioni.

La prima è tutta connessa alla bozza di piano, quelle oltre 170 pagine giudicate da autorevoli commentatori migliorate rispetto alla prima versione, ma ancora ritenute carenti sulle riforme (giustizia e pubblica amministrazione), in quanto a coerenza complessiva e rispetto al green deal. A preoccupare maggiormente è una questione di metodo. Ben più della cronica situazione di instabilità politica, a Bruxelles temono l’assenza di correttivi all’abituale carenza italiana nella gestione dei fondi strutturali, così come appare riproposta nel progetto italiano per l’utilizzo del recovery fund. La seconda è sistemica e riguarda non solo e non tanto la crisi politica contingente, quanto l’oramai strutturale e preoccupante condizione economica del Paese. Nel momento in cui, con le decisioni assunte tra luglio e dicembre, il progetto comunitario ha optato per un salto di qualità, cioè ha proposto la prima e rivoluzionaria mutualizzazione del debito, il “rischio Italia” può tramutarsi in un tarlo per la credibilità europea nel suo complesso. E questo è inaccettabile, per i vertici comunitari, almeno quanto per i principali Paesi membri, a maggior ragione poiché l’Italia dovrebbe ricevere la quota maggiore di quei fondi garantiti da un impegno diretto della Commissione sui mercati.

La scelta al momento appare quella di minimizzare, evitando drammatizzazioni e sperando nell’ennesimo intervento riparatore e di garanzia da parte del Quirinale. Una volta risistemata la forma politica, l’Italia sarà però giudicata sulla concretezza del piano. Senza dimenticare che alle turbolenze interne potranno presto aggiungersi quelle esterne, provenienti dalla campagna elettorale olandese (voto a marzo), dalla corsa alla successione di Merkel (primo passo già nel fine settimana) e dal successivo voto tedesco di settembre. Il tutto con Roma in vetrina in quanto dal primo dicembre presidente di turno del G20 e si spera pronta (siamo sicuri?) ad ospitare i Capi di Stato e di governo per il vertice previsto il 30-31 ottobre prossimo.

La sola speranza è che dietro al solito balletto politico fatto di autoreferenzialità e di dubbio senso dello Stato, qualcuno abbia preso atto che il credito concesso dall’Ue è limitato. Vi sono una precisa data di scadenza e chiari paletti programmatici a delimitarlo. Solo tenendone conto il “Titanic Italia” potrà sperare di evitare l’impatto.


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